Toscana

Penitenza nella catacomba

DI ANDREA FAGIOLI

«Ci sono luoghi che parlano al cuore, luoghi in cui il silenzio ti avvolge. Eppure tu provi un’intima, profonda, formidabile commozione. Sei in sintonia con un messaggio che non sai distinguere con chiarezza, che viene da lontano, che parla una lingua che non conosci eppure comprendi. Quasi una dotta ignoranza ti portava qui a questo appuntamento con la tua storia, a rivedere con lo sguardo della memoria avvenimenti lontani, di altri che scopri fratelli e sorelle testimoni silenziosi ed eroici della tua stessa fede e della tua stessa speranza».Ci aspettano tre ore di navigazione quando il vescovo Giovanni Santucci ci passa una copia della riflessione scritta per il pellegrinaggio alla catacomba di Pianosa. Scherza pure: «Ha visto che bella poesia?». D’altra parte, è Pianosa stessa ad essere al contempo poesia e dramma: poesia per la sua storia lontana e la bellezza odierna (nonostante l’abbandono); dramma per il passato più recente di colonia penale.

Alle otto e trenta del 12 marzo, il traghetto che porta sulla fiancata il nome «Planasia», lo stesso con cui i latini chiamavano Pianosa, abbandona il porto di Piombino alla volta dell’Elba: prima tappa Rio Marina, poi Porto Azzurro. Infine, barra a dritta verso quella che una volta era l’«isola del diavolo». Ma prima dell’approdo, intorno a mezzogiorno, c’è anche il tempo per avvistare un branco di delfini. Il mare è incontaminato, la pesca e la navigazione turistica vietate. La presenza del carcere ha salvaguardato l’ambiente. Nelle acque trasparenti intorno all’isola si trovano tutti i pesci tipici del Mediterraneo e persino il corallo rosso. Da un paio d’anni Pianosa è meta di un flusso turistico contingentato in attesa di una soluzione definitiva per questi contesi dieci chilometri quadrati a forma quasi trinagolare e piatta (i rilievi superano appena i venti metri). Qualcuno storce la bocca: «Si è discuso e si discute ancora sulla sua utilizzazione. Le parole si succedono e i progetti si accumulano sui tavoli dei politici e delle istituzioni pubbliche, e mentre le prime sono spazzate dai venti, i secondi si coprono di polvere…». Tra i vari progetti anche quello ormai noto dell’insediamento di una comunità monastica.

Abitata fin dalla preistoria, Pianosa conserva testimonianze di epoca romana tra cui una catacomba del IV secolo, che a giudizio di storici ed archeologi rappresenta il più importante monumento catacombale a nord di Roma. «Le nostre conoscenze storiche – ci spiega Gabriele Bartolozzi Casti della Pontificia commissione di archeologia sacra – non ci danno indicazioni su come si sia formata una comunità cristiana così evoluta da poter sviluppare un costume funerario molto simile a quello di Roma».

L’archeologo della Commissione vaticana, a cui si deve il recente recupero del luogo sacro (negli anni trasformato persino in cantina), tiene a precisare che le catacombe erano cimiteri e basta. Non a caso in quella di Pianosa lui stesso ha contato almeno 700 sepolture. «Non è vero – dice Bartolozzi Casti – che nelle catacombe i cristiani si nascondevano». «Anzi – aggiunge Santucci –: la loro fede li spingeva alla testimonianza. Il sangue dei martiri è sempre stato seme di nuovi cristiani». Tutta colpa, insomma, dei vecchi film hollywoodiani.

Comunque sia, verso la catacomba di Pianosa, oltre 300 fedeli di Massa Marittima-Piombino, con il loro vescovo, un gruppo di sacerdoti e l’archeologo della commissione vaticana, hanno dato vita ad un pellegrinaggio sostenuto da una liturgia penitenziale iniziata sul traghetto una volta abbandonato lo scalo di Porto Azzurro. Un pellegrinaggio che in forma diversa sarà ripetuto il 3 aprile e il 7 maggio per soddisfare le numerose richieste (sull’isola non è possibile portare più di 300 persone per volta). Il tutto nell’ambito delle iniziative per i 1500 anni della diocesi le cui celebrazioni, coordinate da don Sebastiano Leone, sono iniziate nell’ottobre scorso in occasione della festa del patrono San Cerbone, vescovo dell’allora diocesi di Populonia, morto all’Elba il 10 ottobre 575 e appartenente al gruppo dei cosiddetti «santi africani», che nel VI secolo fuggirono dalla persecuzione e approdarono sulle coste toscane.

Oggi il territorio della diocesi di Massa Marittima comprende tre isole (Elba, Pianosa e Montecristo) ed è distribuito su altrettante province (Livorno, Grosseto e Pisa). Conta poco meno di 130 mila abitanti e una cinquantina di parrocchie. La catacomba di Pianosa, come nel Duemila, è «luogo giubilare» della diocesi anche in occasione di questo importante anniversario. Del resto, per ammissione dello stesso vescovo, è la reliquia più preziosa della Chiesa massetana. Ed è in questo luogo che «noi troviamo – dice Santucci al termine della processione che si snoda dal porticciolo alla chiesa parrocchiale di San Gaudenzio – la testimonianza di una radice antica che fa splendere la nostra appartenenza alla Chiesa di Gesù Cristo. Qui noi scopriamo chi siamo, da dove veniamo. Le catacombe sono per noi un cardine di pietà e di unità. Le catacombe, come afferma il Papa, sono uno dei simboli storici della vittoria di Cristo sul male e sul peccato. I giovani soprattutto, ma anche noi, guardando a questi loculi vuoti siamo stimolati – conclude il vescovo di Massa Marittima-Piombino – a vivere con coerenza il Vangelo, anche a costo di personali sacrifici».

Dalla chiesa di San Gaudenzio, un tempo ultimo baluardo prima delle mura del carcere, si snoda nuovamente una processione verso la catacomba dove i fedeli entrano a piccoli gruppi. Bartolozzi non si stanca di ricordare lo stato di abbandono in cui trovò il luogo nel 1991 quando arrivò per la prima ispezione. Poi lo scavo e il restauro, tra il ’97 e il ’98. Infine, come suol dirsi, l’antico splendore e soprattutto la commozione per essere di fronte a quella che Santucci definisce «la tomba dei nostri fratelli e padri nella fede» per i quali siamo chiamati a «rinnovare la nostra fedeltà al depositum fidei ricevuto quale tesoro prezioso da conservare con cura».Fuori dalla catacomba, sullo sfondo del mare, i sacerdoti provvedono alle confessioni individuali. Il sole è ancora alto quando ripongono le stole viola e si avviano con i loro parrocchiani al traghetto. Appena il tempo per curiosare nella bacheca di quello che una volta era l’emporio, il «cuore» del minuscolo paese: un fonogramma dell’amministrazione penitenziaria avverte di una corsa straordinaria serale per l’Elba e ritorno, un’occasione per gli agenti e le loro famiglie di fare un salto nella «vita». Ma ormai è storia vecchia. Il foglio è ingiallito. La bacheca rovinata dal salmastro. Il «Planasia» suona la sirena. È ora di ripartire. A terra rimangano due carabinieri, altrettanti agenti di polizia penitenziaria e guardie forestali, che con un paio di detenuti di Porto Azzurro, che qui lavorano in regime di semilibertà, formano l’attuale popolazione di Pianosa..