Toscana

Palestina: donne contro la guerra

DI REBECCA ROMOLI

Cosa vuol dire essere donne oggi? Difficile dirlo, perché ogni donna ha una sua storia, una vita, delle idee e dei pensieri. È difficile spiegarlo, se prendiamo in considerazione i molti contesti che la realtà quotidiana ci presenta. Le donne occidentali (americane, italiane, inglesi, o francesi) non hanno la stessa vita, o per meglio dire non vivono nello stesso modo di quelle arabe, afgane, palestinesi o israeliane. Ma sentire parlare donne palestinesi o israeliane, che vivono quotidianamente la guerra, la paura di non rivedere più i propri cari, di non avere più una casa, è come sentire un inno alla vita. Perché queste donne hanno una grandiosa e potentissima voglia di ricominciare, di continuare a vivere e a credere nel futuro.

Queste donne, spesso, vivono in guerra e il più delle volte la società le umilia, le dimentica se non addirittura ne cancella ogni traccia. Ma questo non le ferma perché, per esempio mentre piangono la morte di un figlio, ne stanno mettendo al mondo un altro. E questo è il modo più coraggioso di affrontare ogni giorno un destino che ti impone sempre di combattere per la tua dignità e non solo.

«Donne coraggiose, vere donne – commenta Teresa Sarti, presidente di Emergency e moglie di Gino Strada –, donne che non vanno al fronte, che non combattono, ma che vivono sulla loro pelle e su quella dei propri figli quali devastazioni provoca la guerra. E queste sono le donne afgane, ma anche palestinesi, israeliane, curde e non solo, che hanno visto crescere i loro figli sotto il rumore delle bombe, ma che non hanno mai perso la voglia di guardare avanti e sperare».

Donne coraggiose che si mettono in gioco tutti i giorni, quelle che vivono nei territori dove la gente non si ricorda più come è una giornata senza sparatorie e senza bombe e che comunque hanno voglia di parlare e di dire che loro stesse, ma soprattutto i loro figli hanno diritto di crescere in un paese civile che per dirimere i conflitti non ricorra soltanto alle armi.

«Essere giornalista in Israele o in Palestina – spiega Marawa Jabara Tibi, giornalista di Gerusalemme – vuol dire sentire incessantemente il rumore delle bombe, i muri che crollano sotto la pioggia di missili, e sentire soprattutto il pianto della gente. Da noi, i fiori hanno l’unico scopo di stare sulle tombe, gli unici odori che sentiamo sono quelli dei gas, dei lacrimogeni o delle cose bruciate, altri non esistono». Non è solo il fatto di vivere in guerra a rendere la vita estremamente difficile a queste donne. Per loro, spesso, resta proibito studiare o confrontarsi con gli uomini su qualsiasi argomento.Queste donne, con le loro vite, le loro battaglie stanno cercando di diffondere in tutto il mondo moderno il concetto molto semplice, ma fondamentale di pensare alle generazioni future e lasciare loro in eredità qualcosa di più che un cumulo di macerie.

«Cosa succederà ai nostri giovani e ai loro figli se li facciamo crescere nella guerra?», si chiede infatti la scrittrice Manuela Dviri, proveniente da Gersualemme come Marawa Jabara Tibi e l’insegnante Meri Bitar, tutte insieme, donne palestinesi ed israeliane, intervenute ad alcuni incontri pubblici a Firenze su invito dell’Unicoop, che negli stessi giorni ha distribuito un volume, Fiori di guerra, dedicato alla storia di dodici donne che hanno vissuto la guerra sulla loro pelle in terre di conflitto come l’Afghanistan, la Cambogia, il Kurdistan o la Sierra Leone.

L’essere donna, stando a queste storie come a quelle che arrivano da Israele o dalla Palestina, significa anche riconoscere occasioni di gioia in mezzo alle situazioni più difficili e guardare sempre e comunque avanti.