Toscana

Betlemme, i toscani forzano l’assedio

Dall’inviatoANDREA FAGIOLIIl volo «Az 804» dalla Malpensa a Tel Aviv è da poco atterrato all’aeroporto Ben Gurion, quando a pochi chilometri di distanza, lunedì scorso, l’ennesimo kamikaze imbottito di tritolo si fa saltare in aria all’esterno di un centro commerciale seminando terrore e morte tra mamme, bambini e donne incinte. Un attentato crudele in una scia di sangue che sembra non finire. Eppure, proprio da quell’aereo Alitalia, una piccola delegazione partita dalla Toscana è scesa per andare a portare una parola di speranza e di incoraggiamento, oltre che un concreto sostegno economico, a quei frati e quelle suore di Betlemme ormai considerati da Nobel per la pace. Ma nel frattempo, anche i carri armati israeliani hanno ripreso le posizioni lasciate il 10 maggio scorso dopo 39 giorni di assedio alla Basilica della Natività e decretato il coprifuoco totale: nessuno entra e nessuno esce dalla città.

Anzi, adesso i blindati con la stella di David si sono piazzati anche nella strada che divide la scuola dei francescani dal convento, proprio sotto le finestre della stanza di padre Ibrahim Faltas, il quale, disperato, rimane in costante contatto telefonico con la delegazione «costretta» a Gerusalemme.

Il «soggiorno forzato» offre comunque di visitare i luoghi santi nella più completa solitudine. Ma quella che per l’improvvisato pellegrino è un’opportunità, per la gente del posto, a partire dai cristiani, è una tragedia. «Non viene più nessuno – ci dice padre Emilio, responsabile della Casa Nova di Gerusalemme, l’ostello dei francescani –: il lunedì di Pasqua avevamo tre persone, il giorno dopo una. Restiamo aperti per dare un segnale di speranza alle persone che vivono qui intorno».

Lo stop di Gerusalemme permette anche una visita notturna al Muro del Pianto, dove la preghiera degli ebrei si fa incessante, e capita di vedere, come non mai, un gran numero di donne nella parte a loro riservata. E poi, la mattina successiva, la solenne Messa cantata dai francescani al Sepolcro, la rapida visita alla piccola Comunità di Bose, nella zona della chiesa siriana di San Marco, a ridosso del quartiere armeno. «Siamo solo tre monaci, ma per noi – ci spiega padre Alberto – quello che conta è la presenza qui, nella Città Santa».

E se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto. Ecco allora che nella tarda mattinata di martedì si diffonde la voce che padre Ibrahim sta arrivando: proprio lui, l’amico della Toscana, uno degli artefici della conclusione pacifica dell’assedio alla Basilica della Natività, il protagonista indiscusso di fronte ai mass media e al mondo. E da par suo, dopo una lunga trattativa, non poteva che uscire da Betlemme scortato da un carro armato davanti e uno dietro.

L’arrivo di padre Ibrahim dà il via libera anche all’incontro con Arafat. Ma l’ingresso a Ramallah è più difficile del previsto. Al check point principale i giovanissimi soldati israeliani ci fanno scendere dal pullman. Inizia un’estenuante trattativa, mentre una folla di palestinesi è assiepata a ridosso del filo spinato in attesa di sapere se potrà rientrare a casa. C’è anche un uomo con in braccio una piccola di pochi mesi. A gesti fa capire che la mamma è dall’altra parte, da dove, però, non si esce.

È di nuovo il nostro turno: i militari ci dicono che possiamo entrare e non uscire, comunque a piedi. Si decide di tentare. Attraversiamo il check point contando i bossoli per terra. Dall’altra parte, una fila interminabile di persone e di auto confermano che da Ramallah non si esce.Raggiungiamo comunque quello che resta del quartier generale di Arafat. Il muro di cinta è stato in gran parte «spinato» e al posto del piazzale interno c’è un ammasso di macerie e di auto distrutte. Per entrare nella palazzina del presidente dell’Autorità nazionale palestinese si passa attraverso un pertugio tra sacchi di sabbia. La sala di rappresentanza (se così si può chiamare) non supera i 20 metri quadrati. Il tavolo è polveroso e la piccola ed unica finestra è oscurata con sacchi di plastica nera: «Qui dentro ci dormo pure – spiega Arafat –: questo è un carcere come carceri sono le città occupate». Ribadisce la volontà di arrivare presto alla pace, a patto che gli israeliani cambino atteggiamento. Conferma per il suo popolo le elezioni entro la fine dell’anno, ma appare stanco: non è più motivato il vecchio rais. Saluta, però, e ringrazia tutti con calore mentre ci accompagna all’uscita.

La via del ritorno si annuncia difficile. Si opta per una mulattiera in direzione nord per evitare il check point. Ma le cose non vanno meglio. Al posto di blocco «alternativo» i soldati sembrano più sprezzanti e a stento tengono a bada un folto gruppo di palestinesi che aspetta inutilmente di uscire. Ci intimano di metterci in coda insieme agli altri fino a che, grazie ai tentativi di padre Ibrahim e del ministro palestinese che ci accompagna, riusciamo a passare. Appena il tempo di scollinare e sentiamo due spari in rapida sequenza: «Sono solo candelotti lacrimogeni», dice qualcuno per tranquillizzarci.

Ma l’avventura non è finita. Per tornare a Gerusalemme siamo costretti a salire su alcuni taxi multipli, che per evitare i controlli sulle strade principali attraversano tratti sterrati, sconnessi e tra le rocce. Quando finalmente arriviamo alle porte di Gerusalemme, giunge la notizia di un agguato contro due coloni ebrei nella zona di Hafra, da dove siamo appena passati. Scattano nuovi controlli. È allarme rosso anche per un possibile attentato a Gerusalemme, ma poi, all’ultimo tuffo e con grande emozione, entriamo anche a Betlemme, ancora sotto l’assedio dei carri armati israeliani.

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