Toscana

Nina: «Io, rumena, badante in Mugello»

DI LORELLA PELLISSi può pensare che un kit cambi la vita? Per Nina, cinquantunenne rumena che lavora come badante in Mugello, qualcosa forse cambierà. Ora che è in regola si potrà muovere più liberamente, e la domenica, il suo giorno libero, magari scenderà qualche volta a Firenze. Ma spesso preferisce restare in quella che considera ormai la sua famiglia adottiva. E se i suoi datori di lavoro, manco a dirlo, sono arcicontenti, Nina è altrettanto strafelice della sua sistemazione in Italia.

Bionda, con i capelli raccolti in una coda di cavallo, è arrivata in Italia dalla sua città, Timisoara, il 13 aprile 2001 grazie a una sua amica che lavorava già in Mugello. Separata, madre di due figli maschi di 25 e 23 anni, in Romania aveva un appartamento di 5 stanze, ma ha dovuto venderlo perché era rimasta con pochi soldi. Là gli stipendi sono bassissimi, chi sta bene guadagna intorno a 250 euro al mese, con affitti però sui 100. Quando arrivò in Toscana non aveva niente e le venne comprato tutto, persino lo spazzolino da denti. Finora non è mai tornata a casa e a luglio è arrivata anche la sorella per lavorare in un altro paese.

Nina è allegra di carattere e questo certamente l’ha aiutata. Il suo compito è fare la badante a un ottantenne affetto da postumi d’ischemia cerebrale. «Dà molto più retta a lei che a noi di famiglia», esclama contenta la figlia. All’inizio non sapeva una parola d’italiano, adesso lo parla molto bene». Ha scritto su un piccolo quaderno tutte le parole che non sapeva e poi ne ha cercato il significato sul vocabolario. Quando è arrivata Pino, il suo assistito, abitava con la moglie, poi anche la signora si è ammalata e per un po’, finché non è morta, Nina ha fatto la badante di entrambi. Ora il compito più impegnativo è portar fuori Pino due volte al giorno, perché deve camminare. «Siccome non vuole mai uscire – racconta Nina – devo trovare un sacco di scuse». Il pranzo vede spesso come ospiti anche i nipoti, che apprezzano molto il purè cucinato alla rumena. Pino va a letto presto, verso le 20,30, e Nina, di fede evangelica carismatica, solitamente resta a leggere la Bibbia. «Ho imparato – dice ancora – a cucinare come voi. La vostra cucina è buonissima, tanto che da 73 chili ero arrivata a 80, poi per fortuna sono scesa a 74». La cosa che preferisce, manco a farlo apposta, è la bistecca: «È stata – esclama – una vera sorpresa, anche se a me tanto al sangue non piace». Ora, con i soldi guadagnati, ha anche comprato un cellulare per comunicare con i figli e forse l’anno prossimo tornerà in Romania per risistemarsi i denti, perché là, ovviamente, si spende meno. Ma finché Pino vivrà, è intenzionata a restare con lui. «Ho bisogno di un bel gruzzoletto per acquistare anche una casa nuova», spiega. Non sta a ripetere che si è anche affezionata, ma non serve. Glielo si legge negli occhi.

Il perché della domestica straniera

Nel settore della collaborazione domestica, come spiega il Dossier immigrazione della Caritas, le donne immigrate sono riuscite a farsi apprezzare per le loro doti di disponiblità, flessibilità e funzionalità. A far lievitare l’inserimento di un numero crescente di lavoratori domestici immigrati sono state varie esigenze emerse nel corso del cambiamento della società italiana, riscontrabili specialmente nelle grandi città:1) l’aumento delle donne che lavorano;2) la crescente difficoltà di ritornare a casa in tempi rapidi a causa della distanza dei posti di lavoro, ma anche del traffico o della scarsità di mezzi pubblici;3) l’invecchiamento della popolazione e il bisogno di assistenza delle persone anziane e spesso anche malate;4) la custodia e la cura dei figli piccoli;5) il cambiamento della concezione di famiglia, diventata più «atomizzata» e meno in grado di offrire una rete d’aiuto. A queste considerazioni, stando sempre al Dossier Caritas, se ne aggiungono delle altre non meno importanti nel giustificare la mancata disponibilità degli italiani all’eventuale lavoro domestico:1) livello salariale basso;2) tipo di prestazioni gravose rispetto agli altri settori (le difficoltà vengono accentuate a seguito del frazionamento delle prestazioni presso più datori di lavoro);3) prevalenza dei rapporti primari (cioè diretti con il datore di lavoro, a differenza di quanto avviene in fabbrica o in realtà lavorative più articolate);4) scarsa considerazione a livello sociale.

Fino agli anni Ottanta e ai primi Novanta un sesto degli immigrati trovava uno sbocco lavorativo solo nell’attività domestica e tra questi la maggioranza erano donne, considerate quasi delle collaboratrici familiari per antonomasia. Il loro inserimento era seguito e facilitato soprattutto dalle organizzazioni cattoliche, alle quali le famiglie volentieri ricorrevano per un inserimento lavorativo basato in larga misura sulla fiducia.

Attualmente, invece, le donne immigrate stanno conoscendo una fase di maggiore emancipazione e iniziano a trovare lavoro anche in altri settori: dai pubblici esercizi, al terziario fino all’industria e all’agricoltura. Di contro, sono in aumento gli uomini, che operano nelle famiglie come cuochi, giardinieri, custodi, autisti, uomini di fiducia.

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Siti utili:

Caritas Italiana

Dossier nuova legge Croce blu di Lucera

Ministero dell’Interno

Servizio immigrati del Progetto Arcobaleno

Sportello giuridico immigrazione della Caritas Italiana