Cultura & Società
Rosy Bindi: “Don Milani, scomodo ma obbediente, un prete che ha ancora molto da dire”
Presidente Bindi, cosa la lega alla figura di don Milani convincendola ad assumere questo incarico?
«Don Milani ha rappresentato molto per la mia generazione, sia dal punto di vista ecclesiale che civile. Continua a far discutere perché è una figura scomoda, profetica per la Chiesa e la società del suo tempo ma che ancora oggi ci interroga sulle nostre coerenze di cristiani e di cittadini. È una persona, un prete, che ha molto da dire alla Chiesa italiana e di tutto il mondo; alla comunità civile, a quanti hanno responsabilità nella vita comune e alle coscienze dei giovani. Era doveroso accettare la presidenza del Comitato nazionale, considero un onore che mi sia stato proposto e non ho potuto sottrarmi. Don Milani merita un anno di attenzione e di impegno durante il quale deve tornare a parlare ai cuori e alle menti delle italiane e degli italiani».
Chi è stato don Milani e in che modo ha saputo parlare ai giovani?
«È stato prima di tutto un prete, animato e sostenuto da una grande fede. E da prete, un uomo davvero obbediente: ha sofferto molto per la Chiesa e anche a causa della Chiesa, per le incomprensioni di cui papa Francesco non ha fatto mistero, quando è andato a pregare sulla sua tomba a Barbiana. Il Papa vuole riconsegnarci don Milani, non come un disobbediente o un ribelle ma come figura scomoda però obbediente fino al dono della sua vita per la Chiesa. Quando leggo le sue lettere, soprattutto quelle ai confratelli e all’arcivescovo di allora, vi avverto un prete desideroso di essere accolto dalla sua chiesa, desideroso di paternità e comunione ecclesiale. Le cose che ha fatto e detto non erano dettate dalla volontà di rompere la comunione ecclesiale o di creare scompiglio. Don Lorenzo è scomodo per la sua fedeltà al Vangelo: lì sta la sua forza. Ma non facciamo l’errore di ritenerlo scomodo solamente per la Chiesa degli anni Cinquanta e Sessanta: la sua coerenza nel restare fino alla fine insieme agli ultimi di Barbiana appare dirompente anche oggi. Pensiamo a ciò che dice papa Francesco. Siamo davvero convinti di esser quella Chiesa in uscita che si fa carico degli scarti e visita le periferie dell’umanità?».
Per questa ragione è tuttora una figura così discussa?
«Discussa e strumentalizzata. In un certo senso fa comodo a chi non potendo non riconoscere la sua fedeltà alla Chiesa e alla Costituzione, preferisce rimuovere questa sua coerenza e dipingerlo come un disobbediente, un contestatore per non superare le proprie infedeltà e incoerenze. La vera profezia di don Milani sta esattamente nella sua profonda fedeltà al Vangelo e alla Costituzione. Nella scelta di stare accanto ai più deboli e agli emarginati. A suo tempo è stato molto più studiato fuori dai confini ecclesiali, soprattutto per Lettera a una professoressa. Tanti amici non credenti hanno ritenuto il suo messaggio uno dei più forti di quegli anni, alla vigilia del ‘68 che anticipava nei suoi aspetti di critica costruttiva. Ma non hanno voluto vederne le radici spirituali. Dopo Esperienze pastorali, vissute a Calenzano, viene trasferito a Barbiana in una parrocchia che doveva essere soppressa e lì rimane, malato e in condizioni di precarietà fisica e ambientale. La forza di quell’esperienza civile nasce in realtà dalla sua fedeltà al Vangelo, fino alla morte».
Dove può ancora interrogarci il suo messaggio così dirompente?
«Sul valore liberante del sapere e dell’istruzione per tutti. Sull’urgenza di superare vecchie e nuove diseguaglianze. Don Milani parla in un paese che registra tassi di dispersione scolastica tra i più alti d’Europa: una dispersione esplicita e una implicita tra chi non abbandona la scuola ma non riesce a raggiungere i risultati adeguati con il proprio curriculum di studi. Dobbiamo interrogarci sulla funzione della scuola pubblica oggi in Italia, una delle fondamenta della vita civile a cui da molti anni non si danno risposte adeguate».
A proposito di scuola: il modello di Barbiana stride con l’attuale discussione sul valorizzare il “merito” nel percorso scolastico?
«Il merito nel modello di Barbiana e includente non escludente. Quell’esperienza parla da sola non c’è bisogno di interpretarla. La scuola di don Lorenzo è davvero una scuola a tempo pieno, che scommettere sulla possibilità che ogni ragazzo possa raggiungere i migliori risultati. Non scarta nessuno, ma a tutti coloro che vengono inclusi chiede di dare il massimo. Don Milani era molto esigente. Poteva esserlo, però, perché metteva i ragazzi nella condizione di poter dare il meglio di sé: questa è la funzione della scuola. Credo che la responsabilità di ragazzi che oggi non hanno voglia di studiare vada cercata in primo luogo nelle famiglie e in una scuola che non riesce ad accoglierli e motivarli».
Quali sono gli aspetti su cui si concentrerà il vostro impegno nell’anno del centenario dalla nascita?
«Vorremmo far parlare don Milani, depurando la sua figura da interpretazioni non sempre fedeli e ricollocandolo nella Chiesa e nell’Italia del suo tempo. Vorrei che rileggessimo e imparassimo il metodo delle sue lettere collettive per scrivere insieme una nuova pagina della vita della Chiesa e del nostro paese. Così sul versante ecclesiale pensiamo di organizzare un convegno su don Milani e la Chiesa a Firenze. È un momento straordinario, in cui si incontrano personalità come don Bensi, dalla Costa, La Pira, Balducci, don Facibeni, Fioretta Mazzei. E al cuore di questa spiritualità c’è la domanda di don Lorenzo sulla comprensione della Parola tra i suoi operai e parrocchiani di Calenzano. La crisi della comunicazione, le difficoltà di evangelizzazione hanno oggi forme e cause diverse ma non sono sfide minori di quelle che avvertiva settant’anni fa don Milani. Ma ci sono altri aspetti dell’eredità di don Lorenzo che intendiamo riportare all’attualità. La sua fedeltà alla Costituzione sarà esplorata sia sul versante sociale e culturale che su quello etico. Pensiamo alla dignità del lavoro. È stata una sua preoccupazione costante, un obiettivo che ha perseguito per i suoi ragazzi. Oggi il lavoro è precario o non c’è, sono tornate forme di sfruttamento inaccettabili e a molte persone il lavoro non consente di raggiungere una vita dignitosa e libera, come prevede la Costituzione. E come ci interpella oggi don Lorenzo quando afferma che chi non ha parola è senza potere! La sua testimonianza appare poi di straordinaria attualità quando affronta il tema dell’obiezione di coscienza e del servizio al bene fondamentale della pace. Le sue sono parole nette contro la retorica della guerra».
Come agirebbe don Milani di fronte alla guerra in Ucraina? Che messaggio potrebbe lanciare che non sia solo retorica?
«Consiglierei di rileggere la Lettera ai cappellani militari, dove interpreta 100 anni di storia e di guerra. Credo non avrebbe avuto dubbi sul fatto che un paese aggredito vada difeso, ma ci avrebbe messo in guardia dalla tentazione, sempre presente, di usare una causa giusta per giustificare la guerra. Sono convinta che bisogna sostenere e aiutare il popolo ucraino e considero molto pericolose le spinte imperialistiche e nazionalistiche. Sono però altrettanto convinta che ormai si stia combattendo una guerra mondiale, lo scontro avviene nel cuore dell’Europa, ma in modo più o meno diretto sono coinvolte tutte le potenze del mondo e occorre fermare al più presto questa escalation. Non possiamo non condannare le orribili atrocità che la guerra porta con sé: crimini contro l’umanità, distruzioni, impoverimento delle popolazioni. Dobbiamo interrogarci sulle conseguenze economiche e sociali di questa devastazione sui paesi europei. Ma dopo un anno di battaglie feroci l’unica discussione aperta è sul tipo e le quantità di armamenti da inviare all’Ucraina. Non c’è altrettanto impegno nella ricerca di vie negoziali e diplomatiche che mettano fine a questa guerra. Non si discute di come raggiungere un cessate il fuoco e men che meno di come avviare una conferenza di pace mentre, da una parte e dall’altra, si sente parlare di combattere fino alla vittoria. Quando leggo don Milani trovo una linea molto chiara: “se vuoi la pace prepara la pace”. E invece noi siamo ancora prigionieri di un pensiero vecchio e il principio: “per la pace prepara la guerra” è tornato imperante».