Cultura & Società

L’anniversario. La morte di Stalin 70 anni dopo e le stragi di Putin in Ucraina

Si era sentito male il 28 febbraio, ma le guardie del corpo non osavano entrare nella sua camera blindata. Quando lo fecero, 24 ore dopo, trovarono il tiranno agonizzante, paralizzato in gran parte del corpo. Secondo la figlia Svetlana, Stalin era sicuro di essere stato avvelenato. Per questo, prima di morire maledisse i capi comunisti riuniti intorno al suo letto. Ai funerali partecipò un milione di persone, 500 morirono schiacciate nella calca. Nel mondo, la sua morte provocò lacrime e retorica. Togliatti lo celebrò come «un gigante del pensiero e dell’azione». Pertini disse: «La sua memoria non conoscerà il tramonto». E Pietro Nenni: «Nessun reggitore di popoli ha lasciato dietro di se il vuoto che lascia Stalin».

Io ero un bambino di seconda elementare, ma ricordo benissimo le lacrime del mio maestro, quelle della gente per strada, lo sventolio delle bandiere rosse. Se n’era andata una divinità, chi poteva prendere il suo posto? Le congiure di palazzo cominciarono già nelle ore in cui il dittatore agonizzava. A Mosca si giocavano le sorti dell’Unione Sovietica ma anche quelle del mondo.

Per trent’anni Stalin aveva fatto uccidere chiunque potesse nuocergli: politici, intellettuali, militari, scienziati. Milioni di oppositori erano stati portati nei gulag. Interi popoli erano stati costretti a trasferirsi in terre lontane da quelle di origine. Il dittatore amava dire: «La rivoluzione non si fa con i guanti di seta». E aveva ragione, perché le sue mani erano nude e sanguinanti.

Ma la storia si affrettò a rimettergli il conto. Nell’arco di pochissimi anni, le infamie del georgiano che era stato scacciato dal seminario quando stava per diventare prete, vennero alla luce . Nel 1956, al XX congresso del Partito comunista sovietico, l’uomo destinato a succedergli, Nikita Krusciov, condannò i suoi spietati metodi di governo. Il comunismo mondiale, come uscendo da un incubo, si ritrovò a rinnegare il proprio idolo. La sua salma fu rimossa dal mausoleo di Lenin. Erich From, nel suo volume sulla «distruttività umana», scrisse che Stalin era un sadico.

Sono passati 70 anni dalla morte di questo personaggio che la storia condanna senza appello. E allora perché ricordarlo? Non ne varrebbe la pena se non fosse per quanto sta avvenendo in Ucraina. Stalin può aiutarci a capire Putin? Pur nell’assoluta diversità del contesto economico e sociale, c’è qualcosa che unisce questi due personaggi? Ambedue vengono da famiglie modeste, ambedue si imposero da giovani grazie alla violenza e al cinismo. Ma deve esserci ben altro, se nel Terzo millennio c’è un uomo che dal Cremlino si permette di compiere nefandezze senza fine umiliando il diritto internazionale, o ancora peggio, i diritti dell’uomo. Sicuramente, le categorie di pensiero che in Occidente si danno per scontate non bastano a comprendere.

Ricordo che durante un viaggio in Georgia, nei giorni della perestrojka, rimasi colpito dal fatto che i camionisti viaggiavano tenendo sul cruscotto le immagini di Stalin e di Shevardnaze, il leader locale molto vicino a Gorbacev. Come si potevano venerare insieme due uomini politici che a distanza di mezzo secolo perseguivano traguardi praticamente opposti? Questo mi chiedevo nelle mie corrispondenze, perché in quegli anni, il giudizio dell’Occidente su quanto accadeva in Urss era soltanto ideologico. In realtà fu chiaro, quando l’impero russo implose su se stesso, che le spinte capaci di distruggere il Cremlino erano soprattutto di tipo nazionalistico. I georgiani ammiravano Stalin e Shevarnadze perché erano georgiani, punto e basta. È poca cosa? Certo. Ma ci aiuta a capire quanto sia diverso il nostro pensiero dal loro. E come può accadere che i russi – lo dicono gli ultimi sondaggi – abbiano accresciuto i consensi per il proprio leader dopo l’invasione dell’Ucraina.

Il fatto è che Putin sa bene come la pensano i suoi sudditi. E in nome loro, ha sempre definito la caduta dell’ Urss come una tragedia. Non rimpiange il comunismo, sia chiaro, ma l’idea della Grande Russia, un continente, un impero al quale è affidato un compito messianico dalla storia e perfino da Dio. Il motivo? Sarà per gli immensi vuoti della steppa, i lunghissimi inverni dove un samovar sul fuoco dà un senso alla vita e combatte il freddo. Sarà per la capacità di soffrire e la malinconia della sua gente, o meglio per il fatto che la Russia non ha mai avuto una classe media, attiva e cosciente del proprio ruolo, ma solo il tiranno e la sua corte contrapposti a un popolo immenso, senza voce. Di certo, Putin è convinto di condurre una lotta contro il male, la depravazione, la corruzione, la decadenza del mondo occidentale. I giorni in cui la Russia scoprì la legge del mercato, e il denaro ubriacò gli umili, di questo vuol vendicarsi.

A dire il vero, ci aveva anche provato ad avvicinarsi all’Europa. Ma si sentì umiliato, considerato il leader di una nazione sconfitta. Ed ecco la vendetta: uccidere i civili, trattarli come topi senza luce, né acqua, né riscaldamento. I documenti che circolano anche a Mosca parlano di un mondo occidentale che in nome del denaro ha perso ogni fede, e nega «i principi morali e tutte le identità tradizionali, nazionali, culturali e religiose». Sono gli eccessi e in certi casi gli errori della nostra civiltà che giustificano ai suoi occhi le infamie che compie. Non meravigli, dunque, che nel patriarca Kirill abbia trovato un solido sostegno. Proprio lui, che fu il prodotto di un’ideologia atea, si presenta oggi come il difensore della fede. E dunque, l’immagine che i nostri media danno della Russia, come di un paese arretrato, non fa che rendere più «santa» la crociata di Putin. Ma anche quella del suo popolo. Perché avevano detto: «Ci salverà il mercato» ma in realtà il mercato ha tolto certezze e solidarietà. Il denaro è stato come una bomba fatta esplodere negli scantinati del Cremlino. Ed ecco che arriva Putin, l’unto, il salvatore, e promette un recupero dei valori: Dio, patria e famiglia.

Ebbene, se vogliamo avviare una seria trattativa che ponga fine alla tragedia, occorre sapere quali parole – e quindi quali pensieri – usa il nostro interlocutore. Smascherare le sue giustificazioni, mettere a nudo il re. Se continuiamo così, giudicando solo con il nostro metro e attribuendolo anche all’avversario, qualsiasi colloquio sarà impossibile. E la pace resterà utopia.