Toscana
Ogni vita è dignitosa: l’impegno di Ant per i malati, intervista a Silvia Leoni
«La morte non è mai una soluzione». È questo il titolo del Messaggio della Cei per la Giornata per la vita che si celebra questa domenica. È anche uno dei principi che ispirano l’Ant, Associazione nazionale tumori, che offre assistenza domiciliare i malati più gravi, accompagnandoli spesso nelle ultime fasi di vita. Silvia Leoni, medico, è cooordinatrice sanitaria dell’associazione in Toscana.Con Ant assistete tante persone e tante famiglie che si trovano a porsi domande sulla morte. Quali sono le domande, le richieste, le ansie che i vostri medici e volontari incontrano?«Arriva un momento nella vita di molti malati in cui purtroppo il tumore non è guaribile, non risponde più alle terapie a cui si sono sottoposti oppure è in una condizione tale da non poter essere sottoposto a nessuna terapia: inevitabilmente per queste persone e per le loro famiglie inizia un percorso di fine vita, che può essere più o meno lungo e più o meno complicato a seconda del tipo di tumore e dei sintomi presenti. È in queste situazioni che nei malati, se consapevoli, e nei familiari, si intensificano le ansie, le paure, i timori e nascono le domande di significato e le richieste di non soffrire e di non essere lasciati soli nell’ultimo tratto della vita. Queste domande così importanti possono essere fatte solo se il malato e i familiari hanno al loro fianco volontari e professionisti con cui si è creato un rapporto di vicinanza, di stima, di rispetto: non si può condividere una domanda di senso della vita e della morte se non hai accanto una persona che riesce a sostenere il tuo sguardo, che ha tempo per stare con te, che ti promette di non lasciarti solo ad affrontare la morte e di utilizzare tutte le sue conoscenze per non farti soffrire, che non si scandalizza per la tua rabbia o le tue paure».La vostra fondazione nasce per diffondere una sanità a misura di uomo. Che cosa significa concretamente? Qual’è il vostro approccio nei confronti della malattia?«Esattamente 45 anni fa a opera del nostro fondatore, l’oncologo bolognese prof. Franco Pannuti, nasceva l’Ant, una realtà che vede i professionisti (medici, infermieri, psicologi) impegnati nell’assistenza domiciliare per garantire ai malati di tumore l’Eubiosia. In questo termine, dal greco “buona vita”, è racchiuso il senso del progetto etico alla base del nostro agire e l’approccio nei confronti dei malati: garantire una buona qualità di vita a chi non può più guarire, con le migliori risorse della medicina e i professionisti più qualificati, evitando l’accanimento terapeutico ma anche l’abbandono assistenziale, sostenendo psicologicamente e spiritualmente il malato e la famiglia. La maggioranza dei malati che assistiamo (oltre 10.000 ogni anno in Italia) viene seguita per molti mesi con le migliori cure e le migliori attenzioni, anche se “non c’è più niente da fare”, ma avendo a cuore la dignità di ogni singola persona ogni singolo giorno».I vescovi nel loro messaggio parlano dei rischi di una cultura di morte che vede nell’aborto o nel suicidio assistito una via d’uscita dal dolore e dalla paura. Come si può arginare questo rischio?«Nella nostra esperienza a fianco di migliaia di persone malate, è proprio la sofferenza a spaventare di più, così come la solitudine o la preoccupazione di essere un peso per le persone a cui si vuole bene. La cultura diffusa oggi che la persona malata, o peggio ancora in fine vita, sia un peso, inutile o addirittura costosa per la società, viene vissuta anche dai malati e spesso dai familiari, non più abituati a stare accanto a una persona nel suo ultimo tratto di vita. Solo ritrovando uno sguardo carico di compassione sulla vita di queste persone, e non sulla loro morte, solo facendosi compagnia quotidiana, si può arginare il rischio della diffusione di una cultura di morte».Ricevete richieste di eutanasia? Se dovesse succedere, come rispondete?«La maggioranza delle persone malate che incontriamo vogliono vivere, sono attaccate alla vita, hanno progetti e sogni. Anche se sanno di essere vicini alla morte, vogliono vivere al meglio e in dignità il tempo che gli rimane. Nessuna di loro però vuole soffrire o essere abbandonata e spesso nella disperazione, nella mancanza di senso e nella solitudine può mettere radici un desiderio di porre fine anticipatamente alla propria vita. Se succede, non dobbiamo scandalizzarci, ma cercare di comprendere la sofferenza della persona che abbiamo davanti e i motivi che la spingono verso una richiesta estrema: è faticoso e non semplice, richiede tempo, impegno, compassione, ma se si riescono ad affrontare e magari a risolvere i vari aspetti del problema, si può arrivare a un percorso più sereno verso la fine della vita. Se dovessi dire che è facile e uguale per tutti, mentirei! Quante famiglie sono più spaventate e disperate del malato stesso! Quanti malati pensano di essere un peso anche economico per i loro cari, come se occuparsi di un familiare malato fosse una perdita di tempo! Quanti malati sono purtroppo da soli…».Il messaggio della Cei invita a «cogliere il senso e il valore della vita anche quando la sperimentiamo fragile, minacciata e faticosa». Cosa si può fare perché questo sia possibile nell’esperienza quotidiana delle persone?«Purtroppo negli anni ho assistito a una sempre più diffusa “fuga” delle persone dalle situazioni di sofferenza e dolore: una persona sta male o sta morendo e non si è capaci di stargli accanto che per poco tempo, si cerca di “proteggere” bambini e adolescenti dal vedere la fragilità, si fa fatica a dare un po’ del proprio tempo per aiutare, si nasconde perfino la morte invece di affrontarla come un processo naturale. Invece si fa “esperienza” quando si ha una conoscenza diretta della realtà, ognuno ovviamente con i propri strumenti culturali e personali e non da solo. L’aspetto del mio lavoro che più mi arricchisce umanamente è proprio la condivisione del tempo, dei pensieri, dei ricordi, dei bilanci, delle speranze e delle credenze delle persone che sono si più fragili, ma molto più libere e sincere».