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Ucraina, l’inviato di Avvenire: “La guerra ha anestetizzato i sentimenti: i bambini non sorridono più”

Cominciamo dai fatti più recenti. Sembra che ci sia un nuovo attacco russo dopo una fase di ritiro o di stallo. Si apre una nuova fase della guerra?

«In Ucraina la situazione cambia di giorno in giorno. Sui media vengono presentate battaglie “simbolo”: Mariupol, Kherson, ora Bakhmut e Soledar. Soltanto la storia ci dirà se saranno battaglie che cambieranno il corso della guerra. Per adesso l’Ucraina è attraversata da una lunghissima linea di fuoco che corre per centinaia di chilometri: è quella intorno alle zone ancora occupate dall’esercito di Mosca che comprendono gran parte di quattro regioni, Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia, ed è quella sul confine diretto fra Russia e Ucraina. Intorno a questo “fronte” infinito ogni giorno si combatte; e le città e i villaggi limitrofi sono bersaglio di continui attacchi. Uno degli emblemi di questa “strategia della tensione” è Kharkiv, seconda città dell’Ucraina dove vive oltre un milione di persone. È a cinquanta chilometri dalla frontiera russa. Bastano meno di quaranta secondi perché un missile lanciato da oltre confine raggiunga il centro: quindi anche gli allarmi sono inutili; e per un terzo è distrutta dai raid senza sosta che colpiscono di tutto: dai condomini ai palazzi storici, dalle scuole alle fabbriche».

Come hai trovato le città occupate dai russi che poi si sono ritirati?

«Una sorta di roulette russa – ironia dell’espressione – decide il destino di città e villaggi prima di essere “deoccupati”, come li definiscono gli ucraini. Ci sono casi in cui l’esercito russo li ha abbandonati senza forme di accanimento. Ci sono, invece, situazioni in cui la ritirata è stata preceduta da una distruzione completa di tutto ciò che era possibile. Autentiche azioni di ritorsione nei confronti della popolazione. Cito Yatskivka, il primo villaggio che si incontra appena entrati nella regione di Donetsk dove in questi giorni si concentrano gli scontri. Più che un villaggio, è una scia di abitazioni intorno a un’unica via. È stato liberato a settembre dopo sei mesi di occupazione. Nulla si è salvato dalla furia distruttrice russa di cui Yatskivka è una delle più atroci prove e che lo ha reso completamente inabitabile. Infatti non ci vive più nessuno. Di molte case non rimane alzato neppure un muro. L’intera terra è una bomba a orologeria, disseminata com’è di oggetti esplosivi. L’annientamento è stato condotto con tutto ciò che si aveva a disposizione: aerei, carri armati, artiglieria leggera. Anche la piccola chiesa che mostra la croce del patriarcato di Mosca è stata distrutta. “Non hanno avuto rispetto neppure della loro religione”, mi ha raccontato una donna».

Gli ucraini come stanno vivendo questo momento?

«Nessuno nasconde che dopo quasi dieci mesi di guerra c’è stanchezza. Lo ammettono le persone stesse; me lo hanno detto vescovi e sacerdoti. Ma non significa rassegnazione. Anzi, direi che la resistenza più autentica e valorosa, che non conosce cedimenti, è quella della gente che vive sotto le bombe. Poi in queste ultime settimane si assiste a un fatto che può apparire paradossale visto con occhi dello straniero: chi aveva lasciato all’inizio del conflitto la propria città o il proprio villaggio, soprattutto nell’est del Paese, torna a casa. Anche se la casa è in una terra dove i missili restano all’ordine del giorno o l’abitazione è ancora danneggiata per un razzo che l’ha centrata. È il controesodo dei rifugiati. E quando chiedi loro perché, rispondono: tanto le bombe cadono ovunque; meglio vivere dove abbiamo le nostre radici. Ciò dice come un popolo si sia assuefatto alla guerra e ci stia convivendo. Del resto la gente non piange più: l’invasione russa ha anestetizzato le lacrime. Anche i bambini non sorridono più e ti parlano di bombe, colpi di cannone, esplosioni cui hanno assistito allo stesso modo di un cartone animato o di una partita di pallone».

Sarà un lungo inverno?

«È un inferno folle quello che vive l’Ucraina. Prima di tutto perché è un inverno di guerra. E poi perché è, almeno per adesso, insolitamente mite. Ci sono, sì, giornate dove le temperature scendono a meno quindici come nella festa del Natale ucraino, il 7 gennaio, ma anche giornate dove il termometro segna dieci gradi. Un’assoluta anomalia. Tutto ciò viene visto dagli ucraini come un “dono del cielo”. Infatti Putin sta ordinando da ottobre bombardamenti sistematici alle infrastrutture energetiche per lasciare un’intera nazione al buio e al gelo, senza energia elettrica e riscaldamento. Anche nei giorni scorsi si sono avuti attacchi massicci di missili e droni kamikaze nella medesima giornata in più punti del Paese. Ma la popolazione non è in ginocchio: sia per il clima non così tremendo, sia per lo spirito di adattamento dove la mancanza di corrente è ormai vista come un necessario sacrificio, sia per la risposta collettiva delle comunità che si attrezzano con generatori, batterie, persino stufe a legna nei condomini per far fronte all’emergenza. E, per citare il caso della diocesi di Kiev, anche le chiese sono diventate un “punto caldo” sempre aperto dove è possibile trovare un riparo in caso di assenza prolungata di elettricità e riscaldamento».

Nei giorni che hai passato in Ucraina quali sono state le scene che ti hanno colpito di più?

«Il 9 gennaio ho raggiunto il paesino di Shevchenkove, nell’est del Paese, dove tre ore prima un missile russo era caduto sul mercato cittadino provocando due morti. Le autorità e la gente mi hanno fatto arrivare fin sul cratere di quattro metri, accanto ai negozietti e ai banchi sventrati. “Devi raccontare a tutti il male che ci fanno”, mi ripetevano vedendo il giubbotto antiproiettile con scritto “Press”. Ha lasciato anche il segno la visita al villaggio di Slatyne dove ancora è proibito entrare e che è a quindici chilometri dal confine russo. Qui la gente, per lo più anziani, continua ad abitare fra le rovine delle proprie case devastate, senza elettricità e acqua corrente. Ho conosciuto Viktor, un anziano che ti offre il te riscaldato sul fuoco fra i mattoni nel giardino della sua casetta semi-diroccata e ti racconta che la moglie è “morta di crepacuore quando i nemici ci hanno attaccato per giorni”. Oppure Vladimir, un muratore che ti mostra la sua villetta dove sono piovuti otto razzi fra giardino, tetto e soggiorno e ha una mano che non muove più perché “ero a prendere il cibo. I russi hanno lanciato un ordigno sulla gente in coda. Sono morti in cinque. A me una scheggia è infilata nel polso”. Altrettanto d’impatto è vedere come la Cattedrale greco-cattolica di Kharkiv “sfami” ogni settimana tremila poveri di guerra e sia diventata un santuario della solidarietà. Nelle navate il vescovo ha fatto sistemare gli aiuti umanitari. Tutti i giovedì si presentano in migliaia davanti ai cancelli e restano in fila per ore pur di avere una coperta, recuperare un cappotto o un maglione, farsi riempire di patate una busta, trovare i pannolini per il figlio. Lì ho parlato con Olena, madre di tre ragazzini dai due a dieci anni: mi ha raccontato che per sette mesi ha vissuto sottoterra in un deposito dell’ospedale davanti al suo condominio che era stato bombardato all’inizio dell’invasione russa».

Una pace è possibile? Quale potrebbe essere il ruolo del Papa in questo senso?

«Per la maggioranza del popolo ucraino la pace è sinonimo di “vittoria”. E si sostiene che la condizione necessaria di ogni negoziato sia la liberazione dei territori occupati dalle truppe russe. Non si possono fare previsioni su come sarà la pace in Ucraina e soprattutto quando arriverà. Nel Paese è diffusa una considerazione: c’è il rischio che un “cessate il fuoco” garantisca soltanto un periodo limitato di quiete dopo la tempesta e consenta alla Russia di preparare futuri attacchi. Guardando al Papa, i suoi continui richiami al “martirio” dell’Ucraina sono molto apprezzati, così come gli aiuti che il Pontefice fa arrivare e che sono inviati anche da moltissime Chiese di tutto il mondo, compresa la generosa e apprezzata Chiesa italiana. Tuttavia alcune sue uscite hanno creato sconcerto. Ancora non è chiaro se papa Francesco possa essere un mediatore fra le parti in caso di trattative o possa favorire l’apertura dei negoziati: lui si è reso disponibile e la diplomazia vaticana sta lavorando in questa direzione. Sicuramente il Papa è un mediatore nello scambio dei prigionieri di guerra e sta contribuendo a far tornare in Ucraina e in Russia i soldati catturati dall’altro esercito. Segno che il Pontefice viene ritenuto come un interlocutore affidabile, almeno sulle questioni di carattere umanitario».