Toscana

Quel Natale del ’57, storia di un’amicizia tra i popoli

DI ENNIO CICALIPerché non festeggiate il Natale? Di chi sono i luoghi santi? È vero che nei kibbutzim la proprietà è collettiva? La Mesopotamia è dalle vostre parti? Queste le domande dei bambini della scuola di Doccia, un paese sopra Molino del Piano, non lontano da Firenze, ai coetanei del kibbutz di Ruhama, in Israele. I bambini israeliani rispondono: «Anche noi, negli stessi giorni in cui voi festeggiate il Natale abbiamo una festa che si chiama delle luci, in ricordo del miracolo dell’ampollina avvenuto durante l’assedio di Gerusalemme». Assediati in una grotta, gli ebrei avevano olio per un solo giorno, ma il miracolo avvenne: l’ampollina ne durò otto. E i bambini di Ruhama, fatte alcune trottoline in ricordo del prodigio, le inviano ai loro coetanei di Doccia.Nasce così, nel 1957, l’amicizia tra i bambini di due realtà così lontane, un borgo della campagna toscana e un lembo d’Israele, appena uscito dalla guerra del Sinai del ’56, bersaglio di atti terroristici che mantengono nel paese uno stato di inquietudine. L’idea è della maestra Sara Cerrini Melauri, che tenta di far scoprire ai ragazzi che il mondo è una comunità di amici che cercano amici, una comunità che si può allargare. Così i bambini di Doccia trovano nuovi amici nei bambini d’Israele.«Nel ’57 si parlava in modo superficiale di quello che era avvenuto ad Auschwitz – spiega oggi la maestra Sara – e i bambini chiedevano perché gli ebrei erano stati perseguitati. Dissi allora: se volete sapere meglio chi sono questi bambini ebrei chiediamolo a loro».

A fare da tramite fra i bambini di Doccia e i coetanei ebrei è il futuro marito di Sara, Tullio Melauri, sopravvissuto con un fratello ad Auschwitz e che a quel tempo vive nel kibbutz di Ruhama, a due ore di autobus da Gerusalemme. La maestra israeliana, Ilana Heller Hasson, di origine lucchese, accetta con entusiasmo e per due anni si ha un fitto scambio di corrispondenza.

Da Israele arrivano le lettere scritte in lingua ebraica e da Doccia quelle in italiano, a tradurle pensano le due maestre, Sara e Ilana. Ai bambini arrivano anche i testi originali, così possono capire le differenze tra le due lingue, molta curiosità desta la scrittura ebraica che si legge da destra a sinistra.

I bambini di Doccia descrivono il loro paese: «È in collina – scrivono – circa 334 metri sul livello del mare a nord est di Firenze da cui è distante 20 chilometri; ha 650 abitanti quasi tutti contadini, ma alcuni lavorano fuori e molte donne cuciono biancheria e fanno cappelli in rafia».I bambini ebrei rispondono con una foto del loro kibbutz: «Il nostro villaggio – scrivono sul retro –. Le macchine si trovano vicino al magazzino delle granaglie… Le case che si vedono in secondo piano sono le abitazioni. Tredici anni orsono in questo luogo non c’era neppure una pianta. Tutto era deserto».

«Pace a te», con questa frase cominciano e finiscono sempre le lettere da Israele che descrivono la vita di bambini, con il loro impegno scolastico, le aspirazioni, i desideri, le curiosità. Proprio come i bambini di Doccia.

Ioshua racconta a Marco degli animali che si trovano nel villaggio. «Ci sono molti pavoni – dice –, mi dispiace di non potervi mandare un uovo perché si può rompere». Aron descrive la sua famiglia: «Noi siamo in quattro», dice e chiede a Pasquale com’è composta la sua. «Ti spedisco il nostro alfabeto – aggiunge – e tu spediscimi il vostro».Ci si scambiano anche le fotografie che raffigurano le due scolaresche con le maestre, sul retro i nomi. Ci si scambiano doni. Gli israeliani inviano spazzole e spazzolini da denti, oggetti fabbricati nel loro kibbutz in una piccola fabbrica sussidiaria che si giova della manodopera disponibile in certe parti dell’anno, specie nella stagione piovosa; gli italiani inviano delle maschere che i bambini israeliani indossano per il purim, il carnevale ebraico. Tante piccole cose che fanno felici i bambini, sia israeliani che italiani: disegni, oggetti fatti con le proprie mani, pastelli, francobolli e cartoline, tante cartoline. Particolare successo riscuote una bottiglietta inviata da Israele con una polvere finissima e dorata: è la sabbia del deserto che ancora oggi qualche bambino di allora ricorda. All’amicizia tra le due scuole dedica un articolo anche Arrigo Benedetti, a quel tempo direttore dell’Espresso, in un suo diario d’Israele, pubblicato il 13 aprile 1958. Una foto del servizio è dedicata ai bambini di Ruhama che indossano le maschere inviate dagli amici di Doccia.La scuola finisce, alcuni bambini di Doccia si trasferiscono – le campagne cominciano a spopolarsi – per altri è tempo di andare a lavorare. In tutti, a distanza di molti anni, è il ricordo degli amici di Ruhama. La corrispondenza con Israele, scrive in un suo libro Sara Cerrini Mellauri, ebbe un grande valore umano e la nostra amicizia fu coronata alla fine da un incontro a Doccia tra due bambini del kibbutz e i miei scolari. «Da quel giorno, quando il prete parlava di Gesù, i bambini sapevano che anche lui era ebreo come quei loro amici e non guardavano più agli ebrei come esseri misteriosi e diversi».Dove saranno oggi i bambini di Ruhama? Quale sarà stata la loro sorte?

Queste le domande che ogni tanto si fanno i «bambini» della scuola di Doccia del 1957. Sarebbe bello poter dare loro una risposta.

La maestra Heller Hasson: «Ecco come si vive nei villaggi collettivi»Il kibbutz (insediamento collettivo) è un’esperienza sociale tipicamente israeliana nella quale ogni bene è di proprietà comune. I 280 kibbutzim attualmente situati in tutto Israele, all’origine erano insediamenti agricoli, ora si sono orientati verso un’economia di tipo turistico o industriale.

In una lettera del 1958 la maestra Ilana Heller Hasson descrive ai bambini di Doccia cos’è e com’è organizzata la vita nel kibbutz: «Il villaggio collettivo è un villaggio dove si sono riunite alcune famiglie (fino a 10 e più) con il proposito di lavorare e vivere in comune come una grande famiglia – scrive –. I guadagni del raccolto vanno alla cassa comune. Con i soldi compriamo vestiario, macchine agricole, bestiame, paghiamo gli studi ai bambini (nei villaggi collettivi tutti i bambini studiano fino a 18 anni obbligatoriamente; questa è una cosa che non avviene in molti stati).I membri di questi villaggi scelgono le stoffe e si fanno confezionare i vestiti nella sartoria collettiva, danno a lavare la biancheria alla loro lavanderia meccanica, mangiano nel grande ristorante comune dove la cucina ha i macchinari e le pentole più moderne (a vapore o a elettricità), lavorano 8-9 ore al giorno nel ramo adatto a ognuno di loro o dove c’è più bisogno per la collettività. Lavorano sia uomini che donne, non più di 8 ore al giorno (9 in estate) così c’è uguaglianza fra uomo e donna (…). I bambini, mentre i genitori lavorano, trascorrono la giornata nelle case dei bambini dove dormono, mangiano, studiano, divisi per età. Il pomeriggio, fino a tarda sera lo trascorrono con i loro genitori negli appartamenti degli stessi. La sera il babbo e la mamma accompagnano i figli alle case dei bambini, preparano loro i letti per la notte, augurano la buona notte dopo aver aiutato un po’ i figli nei compiti di scuola. Non crediate che in Israele tutti i villaggi siano così – precisa Ilana Heller Hasson – al contrario ci sono molte città come in Italia e molti villaggi, non collettivi come in Italia e in altri paesi».