Toscana
Il Natale nel sud del mondo
“Sicuramente è un segnale positivo – continua il missionario – ma nella zona nord della Costa d’Avorio, quella in mano ai ribelli, c’è ancora molta paura. Nonostante dichiarazioni distensive, in città si respira ancora aria di guerra. Oggi camminando ho visto molte camionette con lanciarazzi presidiare gli angoli delle strade e negli ultimi giorni gruppetti di uomini armati hanno rimesso in piedi posti di blocco un po’ ovunque sulle strade del nord; per farti passare chiedono un regalo di Natale’. E dire che i presupposti per sperare in un Natale diverso c’erano tutti”.
Non va meglio ad Abidjan, principale città della Costa d’Avorio ed enclave del presidente Gbagbo. “Qui forse non abbiamo i problemi di sicurezza che ci sono al nord, ma la crisi politico militare che investe il Paese da un anno e mezzo ha bloccato l’economia e la gente adesso soffre la fame” spiega padre Antonio Serrau, missionario nella Parrocchia di San Lorenzo. “Nella nostra diocesi – aggiunge il religioso – abbiamo 200mila fedeli; quasi tutti, prima della crisi, stavano bene economicamente e avevano un buon reddito. Adesso la situazione è disastrosa. Nelle case ormai i capifamiglia sono costretti a scegliere se utilizzare i pochi soldi a disposizione per pagare le medicine o per mandare i figli a scuola; se utilizzarli per un’infermiera che soccorra un parente o per comprare qualcosa da mangiare”.
Il prodotto interno lordo del Paese, una volta uno dei più ricchi di tutta l’Africa, è crollato del 4,7 per cento nel 2003; prima della crisi si prevedeva che il Pil dovesse crescere del 3 per cento. “Numeri – conclude padre Serrau – che nella realtà quotidiana dei fedeli di san Lorenzo significano morire di fame”.
Nella confinante Liberia, intanto, grazie all’aiuto della comunità internazionale si è chiusa una guerra lunga 14 anni, ma il quadro, anche qui, è tutt’altro che rassicurante. “Nessuno può dire di sentirsi ancora al sicuro in Liberia” spiegano alla MISNA le missionarie della Consolata, raggiunte telefonicamente nella loro comunità di Harbel, ad una cinquantina di chilometri dalla capitale Monrovia. “C’è troppa gente – proseguono – con armi in mano e i saccheggi e le violenze continuano. La sicurezza è garantita solo in quelle poche zone in cui sono presenti i ‘caschi blu’. Noi comunque andiamo in giro a cercare di distribuire un po’ di cibo alla gente e dare loro un po’ di sollievo”.
L’unica nota positiva di questo viaggio nei conflitti africani arriva dalla Repubblica democratica del Congo, l’immenso Paese della regione dei grandi Laghi sconvolto dal 1998 da quella che Madeleine Allbright, allora Segretario del dipartimento di Stato Usa, definì la “prima guerra mondiale africana”. Il Congo, aiutato dalla comunità internazionale, sta lentamente e faticosamente uscendo da cinque anni di combattimenti che, secondo le stime più accreditate, hanno causato oltre 3 milioni di morti. Un governo di unità nazionale si è insediato nei mesi scorsi nella capitale Kinshasa raccogliendo intorno allo stesso tavolo i nemici giurati di un tempo. “I frutti cominciano a vedersi” dice alla MISNA suor Bambina, una religiosa che da vent’anni si trova nell’est dell’ex Zaire e che attualmente vive a Uvira (città del Sud Kivu vicino al confine col Burundi e il Rwanda), teatro negli anni scorsi di intensi combattimenti tra i partigiani congolesi e le milizie ribelli filoruandesi. “Finalmente c’è aria di festa. Non potete immaginare la gioia di riuscire dopo tanti anni a celebrare un Natale sereno senza il terrore della guerra” dice la religiosa.
“Siamo impegnatissimi – continua – perchè molte coppie hanno deciso di sposarsi a Natale e molte altre faranno battezzare i propri bambini nel giorno in cui è nato il Signore. Questi giorni vivremo anche un evento ‘storico’: per la prima volta dal 1996 nei prossimi giorni ci recheremo a Baraka, una cittadina sulle sponde del Lago Tanganika distante solo qualche decina di chilometri da Uvira, che a causa della guerra è stata irraggiungibile per anni. Ma la speranza maggiore ci viene guardando la gente che torna a lavorare la terra col sorriso sulla bocca”.