Toscana

Italiani in Iraq, parla il cappellano militare

di Andrea Fagioli

Padre Mariano Asunis è il Cappellano militare capo dei nostri soldati in Iraq. Molti lo ricorderanno per non aver mai abbandonato le bare dei militari e dei Carabinieri morti nel tremendo attentato di Nassirya il 12 novembre scorso. Lo raggiungiamo per telefono alla vigilia dell’Epifania, pochi minuti dopo un altro attentato, per fortuna senza conseguenze: «Per noi – dice scherzando – la Befana è arrivata in anticipo. Stanotte speriamo di vedere la cometa e non i traccianti aerei».Padre Mariano, com’è cambiata la vostra vita a Nassirya dopo il tragico attentato del novembre scorso? «La nostra vita prosegue come all’inizio, non cambia niente. Noi dobbiamo portare a termine il mandato ricevuto. Certamente con un po’ più di paura, ma anche con più attenzione. Siamo sicuri che il Signore ci assisterà anche se non può paralizzare la mano del nemico: c’è il libero arbitrio».Lei parla di nemico, eppure il vostro rapporto con la popolazione irachena è buono .«Il rapporto con la popolazione è buono. Purtroppo, ci sono altre persone, venute da fuori, che cercano di portare lo scompiglio. Il problema è che più siamo accettati più diamo fastidio. Ma non dobbiamo arrenderci, dobbiamo andare avanti».In cosa consiste la sua opera di cappellano militare in una situazione così difficile come quella irachena? «Quando un contingente parte ci deve essere l’alta professionalità dei militari, ma non si può mai trascurare un particolare essenziale per la riuscita della missione stessa, soprattutto quando si è lontani dalle famiglie: non si può tralasciare l’aspetto della fede in Dio. Perciò la nostra presenza qui (siamo in due come cappellani) serve a portare tra i nostri ragazzi la Parola di Gesù, i suoi insegnamenti e sicuramente la speranza, che è la virtù cristiana che dobbiamo trasmettere soprattutto in questi momenti delicati, che sono delicati anche per l’esistenza di questi giovani soldati che si pongono domande alle quali noi dobbiamo rispondere, spesso e volentieri anche con il silenzio, perché soprattutto ci osservano. E dopo l’attentato, oltre l’osservazione, c’è una valutazione su come ha reagito il cappellano, su come ci è stata vicina la Chiesa, tutta la Chiesa, alla quale noi diciamo grazie, a partire dal cardinale Ruini che ci ha incoraggiato a restare per combattere il terrorismo».Quali sono i momenti comunitari? C’è una Messa tutti i giorni? «Tutti i giorni abbiamo due Messe: una la mattina e una la sera».In luoghi diversi? «Abbiamo una tenda grande adibita a cappella: può contenere fino a 150 persone. Poi si va dai Carabinieri, dove c’è stata la strage, anche se dall’altra parte del fiume. Poi si va al Gsa dove adesso si stanno spostando parte dei Carabinieri e dove c’è la parte della gestione di tutti i materiali. Lì ci sono un migliaio di persone. Da lì poi si va a celebrare un’altra Messa all’aeroporto dove c’è l’Aeronautica».Qual è il suo rapporto con i militari, a parte questi momenti comunitari, anche a livello di colloqui personali… «La cosa bella che fa la Chiesa in questo caso è che anche il cappellano è vestito come loro, non ha nessuna differenza. E questo l’apprezzano molto, non ha niente di speciale, vive come loro: se passano nel fango, passiamo nel fango anche noi, se piove siamo sotto la pioggia anche noi. È una vita che si fa in comune, si dialoga, siamo a stretto contatto. Purtroppo, arrivano anche momenti bui in cui nel cuore del ragazzo ci sono tante domande e la persona più indicata per rispondere è proprio il cappellano».Lei è francescano? «Sì».Lei ha anche un grado militare, ovviamente? «Preferisco non parlarne del grado militare. Ce l’ho perché sono militare. Ma io non ragiono col grado. Nella mimetica ho una Croce: quello è il mio grado».Ma la Croce è segno di pace, non di guerra. «Lo sa qual è la cosa bella dei militari?».Qual è? «È che non si scoraggiano, diventano sempre più forti di fronte all’ostilità. Il militare non retrocede, avanza sempre, perché sa che il suo operato è operato di pace e davanti alla pace bisogna rischiare anche la propria vita. Lo hanno fatto gli operatori di pace che sono morti qui a Nassirya e sono pronti a farlo i loro compagni. Molti di questi militari sono soldati di Dio. Glielo garantisco».Nonostante la distanza, lei sarà certamente rimasto in contatto con le famiglie dei militari e dei Carabinieri morti nell’attentato. «Non manco ogni due o tre giorni di chiamarli tutti quanti e ho promesso che appena rientrerò in Italia andrò a trovarli».Quando rientrerà? «Se tutto va bene, i primi di febbraio».Poi ritornerà in Iraq? «Non dipende da me. Lei sa bene che il cappellano ha un responsabile che è l’ordinario militare. Noi apparteniamo a questa Chiesa particolare che è inserita nella Chiesa universale. Quello che mi dice il vescovo, io lo faccio. Per il momento gli sono grato per avermi mandato a servire questa Chiesa particolare qui in Iraq».