Toscana

In ricordo di Fabrizio, trucidato in Iraq

di Pietro Mariano Benni Petali di rosa e garofani gialli, bianchi e rossi sono stati deposti ieri a Washington, davanti alla Casa Bianca, da parenti di militari americani caduti in Iraq che chiedevano al presidente George W.Bush di por fine alla guerra. I petali erano per le migliaia di iracheni morti nel conflitto; i garofani per i 670 caduti statunitensi. Almeno uno di quei fiori, nessuno se ne risentirà, potrebbe essere idealmente dedicato alla memoria dell’ex-panettiere catanese Fabrizio Quattrocchi, un ragazzone di 35 anni divenuto ‘milite privato’ anche perché paradossalmente allergico alla farina.

Fabrizio, che era andato in guerra per mettere da parte i soldi necessari a sposarsi, era uno dei quattro italiani ingaggiati da aziende private – con sedi in Italia ma anche con vasti collegamenti internazionali – per svolgere non meglio chiariti compiti di sicurezza in Iraq. Mentre per la prima volta negli Stati Uniti l’organizzazione Military Families speak out e un gruppo di reduci come il marine Michael Hoffman (due mesi trascorsi in Iraq) chiedevano senza mezze misure la fine della guerra, la famiglia di Quattrocchi cercava di spiegare ai giornalisti che il loro ragazzone, ormai genovese di adozione, pur amante di arti marziali, non era un esaltato né una spia né nulla di misterioso ma solo un “lavoratore come tanti altri” che, dopo un normale servizio militare da caporal maggiore di fanteria e la chiusura del forno paterno, aveva cominciato a svolgere banali servizi di sicurezza in discoteche e locali pubblici, lavorando per la genovese Ibsa (“investigazioni, bonifica, servizi di sicurezza e allarmi”).

Entrato in contatto forse in internet o attraverso l’intermediazione di un mercenario con reclutatori di uomini per l’Iraq, a Quattrocchi erano stati affidati compiti che nemmeno Roberto Gobbi, titolare dell’Ibsa (aderente all’Associazione Italiana Investigatori privati) e responsabile del Brancaleone Shooting Team, ha saputo, potuto o voluto spiegare ai giornalisti che l’hanno contattato. Gobbi, che è anche master ranger non attivo dell’Airo (Associazione italiana Range Officers, sodalizio senza fini di lucro di tutti i giudici di gara del “tiro dinamico sportiv”‘), parlando di Quattrocchi ha detto al quotidiano “Il Centro”: “Era partito a novembre e inizialmente sarebbe dovuto rimanere due mesi, per poi avere una pausa di 15 giorni, ma il lavoro, laggiù, è molto e quindi non è mai tornato”.

Alla società di Gobbi, aggiunge il giornale, era stato chiesto di fornire personale capace di addestrare altri all’uso delle armi e di garantire un servizio di guardia del corpo e di vigilanza agli oleodotti. E a Quattrocchi, in particolare, era stato chiesto di occuparsi della sicurezza di una persona. “Ma non vi dico certo chi fosse” ha tagliato corto Gobbi, secondo “Il Centro”. Non occorre sapere chi fosse quella persona; forse non occorre sapere altro.

Meglio ascoltare Alice, la fidanzata di Fabrizio, che all’Ansa ha detto: “Fabrizio non ha mai picchiato nessuno… a lui, così grande e grosso, non è mai piaciuto fare a botte”. Forse anche per questo è morto Fabrizio, vittima almeno in parte inconsapevole – come tanti, troppi altri – di un contesto violento molto “più grande e grosso” di lui. Lo stesso contesto nel quale hanno già perso o stanno rischiando la vita altri ostaggi in numero imprecisato, incluso il camionista americano Thomas Hamill per il quale a Macon, nel Mississippi, sono in corso veglie a lume di candela.

Un contesto planetario assurdo in cui, da Washington a Genova a Fallujah, garofani e petali di rosa, alla luce delle candele di una veglia, possono anche sembrare lacrime colorate versate invano dalle famiglie di chi comunque continua a morire in una “missione di pace” figlia di una “guerra preventiva”, fiori destinati ad appassire troppo presto nel vorace vaso quotidiano dei media, mentre una sinistra fanfara di propaganda bellica si fa sempre più assordante per coprire un coro crescente di sospiri di pena.Misna