Toscana
Carceri, la Toscana scoppia
Sovraffollamento delle carceri e alta percentuale di detenuti stranieri. Questi i dati più significativi contenuti nel rapporto sugli istituti penitenziari della Toscana realizzato dalla Fondazione Michelucci in collaborazione con la Regione ed il Provveditorato regionale all’amministrazione penitenziaria. Il dato riguardante il sovraffollamento è quello più allarmante: a fronte di una capienza regolamentare degli istituti toscani pari a 2707 unità e ad una «capienza tollerabile» di 3765 unità, in realtà sono 4102 le persone recluse. Rispetto al 2000 (3940) il dato resta più o meno stabile. In realtà è proprio il concetto di «capienza tollerabile», che il precedente governo ha elevato a più riprese, ad aver camuffato il problema.
Il caso più eclatante in Toscana è rappresentato dal carcere di Sollicciano, a Firenze: 447 la capienza regolamentare, 765 quella «tollerabile», 995 i presenti. Un altro dato che emerge riguarda il numero dei cittadini con cittadinanza non italiana ospitati nel sistema penitenziario toscano: al 31 dicembre 2005 sono ben 1628, il 41% del totale. Il «record» spetta ancora a Sollicciano dove su 1052 reclusi oltre la metà, 611, sono stranieri. Resta bassa la presenza femminile nelle carceri toscane, 189 donne, seppur in aumento rispetto al 2000, 143. I detenuti con problemi di tossicodipendenza reclusi sono 1226 (1155 dei quali di sesso maschile), in sensibile aumento rispetto al 2000, quando erano 776.
Margara, qual è lo stato di salute del sistema penitenziario?
«Parliamo di numeri: nel 1990 i detenuti italiani erano 30.000 e le misure alternative erano 6.300. Oggi i detenuti sono 60 mila e le misure 50 mila. E, soprattutto, ci sono in attesa di decisioni circa 70 mila richieste di misure alternative. L’area della penalità, in 16 anni, è passata dunque dalle 36.300 del 1990 alle circa 180 mila unità di oggi. E per il gruppo di 60 mila detenuti, la popolazione penitenziaria è rappresentata per i due terzi da quella che possiamo chiamare detenzione sociale, ovvero detenzione che fa riferimento a fenomeni sociali trattati penalmente».
Chi sono precisamente questi due terzi?
«Sono in gran parte tossicodipendenti e immigrati. Poi ci sono tutte le altre criticità: dalle persone con problemi psichiatrici alle persone con problemi di abbandono sociale. In totale rappresentano 40 mila persone su 60 mila. Insisto su questo perché riguarda ciò che sinteticamente potremmo chiamare l’esplosione del penale che si è moltiplicato in 16 anni di 5 volte tanto. Tutto ciò accade in conseguenza di una certa politica potremmo sintetizzare con l’espressione dal sociale al penale».
Che cosa va cambiato e dove nella legislazione attuale?
«Per l’immigrazione serve una legge diversa dalla Bossi-Fini che comprenda che gli stranieri rappresentano una risorsa per il paese e non sono un pericolo. Per quanto riguarda i tossicodipendenti, nella maggior parte dei casi la risposta non può essere il carcere: devono essere invece affidati al sociale e curati. L’attuale legge Fini-Giovanardi che punisce il consumo e lo spaccio in modo preventivo non fa che peggiorare la situazione. E la cosiddetta Cirielli deve essere rivista nella parte che prevede l’inasprimento della pena in caso di recidiva».
Quanto è difficile oggi la gestione delle carceri toscane?
«Le carceri sono congestionate e difficili da gestire perché sono molto più affollate di quanto possano accogliere. Inevitabilmente la gestione diventa più difficile, ogni servizio diventa più complicato ed è ancor più difficile quando per molte di queste persone si aggiungono problemi di carattere sociale e di disagio. Per la collettività interna è un problema difficile da affrontare: c’è una grossa fetta del carcere che soffre particolarmente e che non ha risposte adeguate. Durante questo periodo, nonostante l’aumento della popolazione interna, le risorse d’aiuto a queste persone sono diminuite».
Ma i problemi non finiscono qui
«Il problema in cui ci si imbatte è quello del non vivere in carcere. La non vita che il carcere dà in molte strutture in cui non ci sono risorse di lavoro, dove la vita si trascina in una cella tutt’altro che vuota ma sovraffollata. Con poche ore d’aria che sono l’unica risposta che viene data, con scarsi interventi di carattere generale e scarse possibilità. Questa è la situazione che interessa una parte notevole della popolazione penitenziaria. Ecco questa non vita è il fondo su cui ci si muove, è la patologia di fondo che sarebbe necessario curare. Per questo bisognerebbe che ci si interessasse effettivamente di cambiare le cose, che ci fosse da lavorare, da muoversi, da vivere fuori dalla cella. Queste dovrebbero essere risposte fondamentali».
Se c’è un appello che ha tenuto banco dopo le «Piazze di maggio», l’evento nazionale ospitato dalla diocesi idi Arezzo che ha scandito il cammino sulla cittadinanza verso il Convegno ecclesiale di Verona, è stato quello lanciato oltre le sbarre dal cardinale Martino nella casa circondariale «San Benedetto». «Giovanni Paolo II aveva chiesto un gesto di clemenza per i detenuti ha detto Martino nel carcere aretino La Chiesa e tutti gli operatori impegnati nelle carceri non hanno perduto la speranza». Il cardinale non ha parlato di amnistia, ma ha premuto per un passo concreto. «Ancora oggi preghiamo perché un atto di clemenza in qualsiasi forma i legislatori decideranno di farlo si possa attuare nel nostro Paese». Di fronte a lui c’era un nutrito gruppo di detenuti, illuminati dai raggi che filtravano nella piccola chiesa sotto la vetrata che raffigura, miracoli delle coincidenze, la Basilica di San Pietro. Vicino al cardinale anche il vicedirettore della Caritas nazionale Giancarlo Perego, il Vescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro Gualtiero Bassetti e il Presidente di Rondine Cittadella della Pace Franco Vaccari. Diocesi e Rondine che si sono impegnate ad entrare in una delle piazze più difficili: quella del carcere. «I diritti umani di tanti detenuti – ha spiegato Martino – sono calpestati e abusati. E quando una persona finisce in carcere, la società tira un sospiro di sollievo dicendo: Giustizia è fatta. E poi si disinteressa di chi sta dietro le sbarre. E questo non deve accadere». Le parole del cardinale hanno permesso che tornasse nell’agenda politica italiana il tema dell’amnistia e hanno aperto un ampio dibattito.
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