Toscana

Eutanasia, dietro un «no» forte e chiaro un «sì» alla vita

di Riccardo Poli Presidente dell’Associazione medici cattolici della Toscana

L’attuale fase del dibattito bioetico nel nostro Paese è quanto mai delicata e complessa. Dopo il lungo e difficile percorso che ha accompagnato l’iter di approvazione della Legge 40 sulla fecondazione assistita ed il successivo confronto referendario, adesso è il momento della cosiddetta «bioetica di fine vita», comprendendo con questa sintesi le tematiche relative all’eutanasia, all’accanimento terapeutico, alla medicina palliativa e, più recentemente, anche al testamento biologico o dichiarazioni anticipate di trattamento.

L’Associazione «Scienza & Vita» ha voluto confermare ancora una volta, con la sua recentissima campagna di sensibilizzazione denominata «Né accanimento né eutanasia» e partita proprio da Firenze, il «no» del pensiero personalista fondato sul valore ontologico della persona umana ad ambedue le strade. Un «no», forte, chiaro e che non lascia spazio ad ambigue e fuorvianti interpretazioni. Un «no» che, proprio per essere vero e credibile, deve coraggiosamente porsi in maniera simmetrica contro entrambe quelle che appaiono sempre di più «pseudosoluzioni» della complessa questione che stiamo dibattendo: sbaglieremmo insomma se pensassimo che, pur di non rischiare un’eutanasia, potessimo indulgere ad accanirci da un punto di vista terapeutico, così come saremmo in grave errore se, viceversa, per evitare l’accanimento, propendessimo per forme larvate di eutanasia. Le risposte non possono e non devono essere queste e nemmeno un compromesso, una mediazione, una qualche forma di via di mezzo tra le due.

Accompagnare il nostro prossimo alla sua fine naturale è ben altro, è «altro» rispetto a questi due estremi: è un «sì» alla vita, un «sì» alla dignità della persona, un «sì» all’uomo. Un insegnamento ed un esempio ci vengono dalla medicina palliativa, ormai ampiamente diffusa in gran parte del nostro Paese, che ha per scopo non quello di aiutare il paziente «a morire», ma «nel morire» e quindi a vivere questa sua ultima esperienza nel modo più umano possibile. Usciamo da stupidi e talora ideologicamente alimentati equivoci e luoghi comuni: la Chiesa, almeno da Pio XII in poi, si è sempre pronunciata a favore di una medicina che riesca ad eliminare il dolore e tutti quei sintomi che possono rendere terribile l’ultimo periodo di malattia di un paziente terminale. Non ci prendiamo in giro: il fatto che nel nostro Paese l’utilizzo della morfina e dei suoi derivati sia ancora ridotto rispetto ad altre nazioni europee, non può certo essere imputato al sentire «religioso» dei medici italiani. Piuttosto le cause sono da ricercare in altre direzioni, ma sarebbe troppo lungo parlarne in questa sede.

E anche per ciò che riguarda il cosiddetto «accanimento terapeutico», termine che, per la sua ambiguità sarebbe forse da abolire, il Magistero della Chiesa, nella Dichiarazione Iura et bona, del 1980, si è pronunciata per l’eticità del non ricorso a mezzi terapeutici straordinari e della rinuncia «a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita».

Ma se le cose stanno così, allora, al di là del doveroso e serrato confronto/scontro con i sostenitori espliciti dell’eutanasia attiva, di cosa e su cosa stiamo dibattendo? I casi di Terry Schiavo, paziente in stato vegetativo, apparentemente incosciente e sottoposta ad un’alimentazione e a un’idratazione artificiali, sospese per ordine del giudice sino alla morte della ragazza e quello di Pier Giorgio Welby, malato di distrofia muscolare progressiva, cosciente, attaccato ad un ventilatore meccanico a causa della paralisi dei muscoli respiratori e che chiede, alla giustizia, una sentenza ed al parlamento una legge che gli faccia «staccare la spina», hanno qualcosa in comune? Sono casi in cui si può intravedere una componente eutanasica? A mio parere senz’altro sì nel primo esempio perché bere ed alimentarsi, sebbene artificialmente, non può configurarsi come un accanimento terapeutico bensì un naturale sostegno per un organismo umano ancora vivente, essendo lo stato vegetativo assolutamente diverso dalla morte cerebrale. Per il secondo qualcuno potrebbe opporre l’obiezione che il ventilatore si configura come terapia ed, essendo Welby cosciente, è nel suo pieno diritto rinunciare alle cure con un atto di volontà non pregressa, come nel testamento biologico, ma attuale. In poche parole: come ognuno di noi ha «diritto a non curarsi» o a interrompere cure anche salvavita, così Welby avrebbe diritto a farsi «staccare la spina».

A mio parere però, al di là del forte e voluto investimento emotivo del caso, che non fa certo bene né ad una serena riflessione bioetica, né ad un altrettanto sereno pronunciamento dei giudici, né tantomento ad un attento e scrupoloso dibattito parlamentare, il caso Welby si differenzia dal semplice diritto a non curarsi o ad interrompere le cure e ciò almeno per due motivi: il primo è costituito dal fatto che lo staccare il ventilatore comporterebbe in maniera molto veloce e diretta la morte della persona ed è difficile distinguere questa dinamica da un’eutanasia attiva; il secondo è legato al fatto che, inevitabilmente, Welby avrebbe bisogno di un intervento esterno per staccare la spina (medico, infermiere, parente, amico) e tutto ciò comporta l’intervento di un’altra coscienza, di un’altra volontà, di un’altra soggettività che viene coinvolta. Insomma, la scelta non interessa più soltanto l’individuo sofferente, ma va ben oltre il medesimo.

Pur con le dovute differenze, legate alle specifiche sensibilità, una cosa senz’altro accomuna ed intimamente unisce il pontificato di Benedetto XVI con quello di Giovanni Paolo II: l’intuizione quasi profetica in tempi non recenti e la successiva convinzione che, sulle tematiche della difesa della vita e della bioetica, si gioca il futuro della nostra stessa democrazia. Scrive Giovanni Paolo II nell’Enciclica Evangelium Vitae: «Il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove», tra i quali lo scomparso Pontefice annovera la dignità di ogni persona umana ed il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili. Senza questi valori, scrive ancora Giovanni Paolo, «lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi». Addirittura, prosegue poi, negli stessi regimi fondati sulla partecipazione democratica, «la regolazione degli interessi avviene spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più capaci di manovrare non soltanto le leve del potere, ma anche la formazione del consenso. In una tale situazione, la democrazia diventa facilmente una parola vuota».

Affermazioni gravi queste, ma profondamente vere. In sintesi, ci vuol dire il Papa, laddove prevale il relativismo etico, laddove non esiste una verità sull’uomo e per l’uomo riconosciuta come tale e valida in ogni tempo e ad ogni latitudine, la conseguenza più naturale è costituita dallo sterile rifugiarsi in un triste individualismo fatto di egoistica rassegnazione ed insieme di rifiuto ed emarginazione del più debole, di colui che può essere di disturbo o di inciampo ad una pretesa «qualità di vita»: si tratti del disabile, del malato terminale, dell’embrione non voluto, dell’immigrato che sbarca sulle coste italiane in cerca di fortuna e di libertà. Un individualismo che può sfociare in una deriva solipsistica (pensiamo a certe forme estreme del pensiero esistenzialista) che vede gli altri, il nostro prossimo, non come «amico morale», ma come «straniero morale», qualcosa o qualcuno che mi è costituzionalmente estraneo.

Ma allora, se questa è la situazione, l’unico modo per non cedere all’«homo homini lupus» è, a parere di qualcuno, quello di ricorrere ad una visione «contrattualistica» della convivenza umana e civile. Se ognuno di noi è straniero morale per l’altro l’unica risposta è un rinnovato contratto sociale. Purtroppo la tragica conseguenza di tutto questo è che, quando ogni rapporto, anche il più intimo, il più naturale (pensiamo ad esempio al rapporto madre/padre – figli), è ridotto ad una forma contrattuale, si arriva a snaturare il fondamento stesso di ciò che, per sua indole, deve svilupparsi nel segno della gratuità, del dono, del reciproco incontro. E, se tutto è ridotto a contratto, va da sé che chi ha meno potere contrattuale da mettere sul tavolo della vita, ad esempio i più deboli visti in precedenza, sia destinato a soccombere a vantaggio dei forti.

Insomma, per concludere, non dimentichiamoci che dietro tante manifestazioni di solidarietà e compassione possono nascondersi ben altri interessi, come quelli di avviare, in un momento in cui la cronicità sta divenendo protagonista del panorama patologico dei Paesi occidentali, un progressivo e subdolo razionamento delle risorse che, ben diversamente da un’auspicabile razionalizzazione, inizi proprio tagliando fondi da coloro che «pesano» di più, in termini di costi, sul sistema: guarda caso i soggetti più fragili, ad iniziare dai malati terminali. Troppo spesso ci dimentichiamo che, con tutte le sue pecche, il nostro Servizio sanitario pubblico costituisce una grande conquista di solidarietà che ben pochi Paesi possono vantare, ad iniziare da quei Paesi Bassi in cui si è legalizzata l’eutanasia, anche per i minori (sic!) e dove si assiste ad una terribile deriva che ben poco ha a che fare con la tanto sbandierata «pietà», ma che invece sa di morte, di solitudine, di chiusura egoistica all’altro.

E non dimentichiamoci infine che, come Chiesa, abbiamo insieme il dovere di non nascondere la verità sull’uomo e sui valori «non negoziabili», ma anche quello di testimoniare con l’amore e l’autentica con-passione, la nostra concreta vicinanza a chi soffre ed alla sua famiglia. Ecco dunque l’appello un po’ provocatorio che abbiamo rivolto alle strutture sociosanitarie che in qualche modo si richiamano alla Chiesa cattolica, affinché offrano gratuitamente e fuori da ogni convenzione almeno un letto, per ospitare un malato terminale durante il suo percorso di sofferenza. Sarebbe un bel gesto carico di forza profetica. Non dimentichiamoci la misericordia e l’attenzione per chi soffre e per chi, soffrendo, lo assiste: la morte e il dolore entrano nelle case di tutti e le nostre comunità devono essere in grado di dare risposte d’amore e d’accoglienza. Diversamente il nostro parlare di bioetica sarebbe vano. L’uomo, la vita, la scienza nel dibattito di oggi Tra le iniziative di «Scienza & Vita» in Toscana, si segnala in questi giorni un convegno promosso dal comitato fiorentino, ma con valenza nazionale, dal titolo «L’uomo, la vita, la scienza nel dibattito di oggi». Sono previsti gli interventi di Paola Binetti, Paolo Blasi, Carlo Casini e Gaetano Quagliariello. L’appuntamento è fissato per questo venerdì 15 dicembre alle 17 presso l’auditorium dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze in via Folco Portinari 5r a Firenze. Fine vita, la commissione voluta dalla Turco Il ministro della salute Livia Turco ha insediato lo scorso 4 dicembre una «Commissione per la dignità del fine vita», composta da 30 membri di diversa estrazione professionale e che rimarrà in carica un anno, anche se dovrebbe elaborare un documento programmatico già per la prossima primavera. Otto le direttrici entro cui dovrà muoversi la commissione, coordinata dallo stesso ministro e da Stefano Inglese: predisposizione di linee guida per un piano nazionale sulle cure palliative, aggiornamento del documento «Ospedale senza dolore», piani di formazione per gli operatori; analisi dello stato dei servizi di assistenza ai pazienti in stato vegetativo; linee guida per la promozione della dignità dei pazienti gravissimi o di fine vita; avvio di un’indagine sulla qualità delle strutture che assistono nelle fasi terminali della vita; verifica dell’assistenza pediatrica per patologie gravi; umanizzazione delle terapie intensive con il massimo coinvolgimento possibile dei familiari. Della commissione fanno parte anche due medici che operano in Toscana: Paolo Busoni (U.O. Anestesia e rianimazione, Meyer – Firenze) e Domenico Maurizi (resp. cure palliative Usl 8 – Arezzo). Casavola presidente della «Bioetica» Proprio nei giorni scorsi il governo Prodi ha provveduto alla nomina del nuovo Comitato nazionale per la bioetica, composto da 35 membri (in precedenza erano 52), ai quali si aggiungono i cinque presidenti emeriti: Giovanni Berlinguer, Adriano Bompiani, Francesco D’Agostino, Adriano Ossicini e Rita Levi Montalcini. A presiedere il nuovo Comitato nazionale, che vede un forte rinnovamento nei suoi componenti, è stato chiamato l’ex presidente della Corte Costituzionale Francesco Paolo Casavola. Ecco i 35 membri ordinari del Comitato: Salvatore Amato, Luisella Battaglia, Stefano Canestrari, Cinzia Caporale, Elena Cattaneo, Mauro Ceruti, Isabella Maria Coghi, Roberto Colombo, Gilberto Corbellini, Bruno Dallapiccola, Antonio Da Re, Lorenzo d’Avack, Maria Luisa Di Pietro, Riccardo Di Segni, Emma Fattorini, Carlo Flamigni, Romano Forleo, Silvio Garattini, Marianna Gensabella, Laura Guidoni, Aldo Isidori, Claudia Mancina, Luca Marini, Assunta Morresi, Demetrio Neri, Andrea Nicolussi, Laura Palazzani, Alberto Piazza, Vittorio Possenti, Rodolfo Proietti, Lucetta Scaraffia, Monica Toraldo Di Francia, Giancarlo Umani Ronchi, Grazia Zuffa. Francesco Donato Busnelli, docente alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, è stato nominato rappresentante nell’European Group on Ethics in Scienze and New Technologies al posto di Carlo Casini, dimissionario dal 12 luglio 2006. Prato, ultima lezione del corso di bioetica Sabato 16 dicembre, alle 8,30, presso la sede universitaria di Piazza Ciardi, a Prato, si tiene l’ultima lezione del corso di bioetica per medici cattolici, dal titolo «Ai confini della vita», con una tavola rotonda su «Bioetica e mass media». Intervengono, moderati da Vincenzo Grassi, Luigi Bazzoli, Cesare Cavoni, Massimo Lucchesi, Marcello Mancini, Gonzalo Miranda, Simona Poli, Mariella Santoro, Marco Viani. Alle 11,45 la Messa celebrata dal vescovo di Prato, mons. Gastone Simoni. Il corso, di durata biennale e il primo del genere ad essere organizzato in Toscana, è nato dalla collaborazione tra le sezioni toscane dell’associazione Medici cattolici italiani, l’Università cattolica del Sacro Cuore di Roma e la diocesi di Prato, con lo scopo di formare medici e personale sanitario sulle problematiche legate al tema della bioetica. Un centinaio gli iscritti, provenienti da tutta la regione. Un libro della Sef per approfondire il tema Per chi voglia approfondire le tematiche connesse all’eutanasia, segnaliamo un agile volumetto, pubblicato in questi giorni dalla Società Editrice Fiorentina. Si intitola «La morte dell’eutanasia. I medici difendono la vita» (pag.136, € 11,00), ed è a cura di Carlo Valerio Bellieni (neonatologo al Policlinico universitario di Siena) e Marco Maltoni, con prefazione di Felice Achilli e Clementina Isimbaldi e postfazione di Antonio G. Spagnolo. I curatori hanno raccolto i contributi di dodici medici che, sulla base della loro esperienza scientifica e umana, parlano di eutanasia, accanimento terapeutico e cure palliative per i malati terminali. Con un giudizio chiaro: compito del medico è difendere la vita. Il volume si pone come un importante strumento di studio e di documentazione bibliografica che può contribuire alla chiarificazione dei termini e delle situazioni cliniche particolarmente in ambito pediatrico neonatale.

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