Toscana

Solo due laureati toscani su mille trovano lavoro all’estero

di Ennio Cicali

Molti giovani neolaureati lasciano l’Italia perché non riescono a trovare posizioni adatte alle loro capacità, ben remunerate e soprattutto con migliori prospettive di fare carriera. Un fenomeno che non sembra riguardare la Toscana. L’87 per cento dei laureati toscani rimane a lavorare sul territorio e trova occupazione a tre anni dalla laurea. La cosiddetta «fuga di cervelli», dunque, comprende solo una piccola percentuale di giovani laureati nelle tre università della regione (Firenze, Pisa e Siena); alcuni si limitano ad uno spostamento entro i limiti nazionali e solo due su mille vanno all’estero. È questo il risultato di una ricerca dell’Irpet dal titolo «Offerta e domanda di capitale umano qualificato in Toscana», presentata dalla Commissione speciale Lavoro della Regione.

Un dato preoccupante riguarda il mancato allineamento tra il titolo di studio e l’accesso al mondo del lavoro. «Un laureato su tre svolge un’attività per la quale la laurea non è richiesta – spiega Lara Antoni, curatrice della ricerca Irpet – e i più penalizzati sono i laureati in discipline letterarie e scientifiche. Invece, i dottori nelle discipline chimico-farmaceutiche trovano occupazione nel loro settore al 93,1% e i medici al 96,7%».

«Il problema della sottoccupazione – rileva il presidente della commissione speciale Lavoro Eduardo Bruno (Pdci) – è un fenomeno preoccupante che colpisce i giovani laureati e che lascia trasparire i limiti dell’università toscana e le difficoltà del mercato del lavoro nell’assorbire forza qualificata, utile per la nostra economia».

Secondo il consigliere regionale Andrea Agresti (An – Pdl) è necessario aggiornare i dati al 2007-2008 per istituire dei corsi di laurea legati al territorio, «in modo – ha detto – da creare maggiori opportunità di lavoro».

Secondo una precedente ricerca dell’Irpet il numero dei laureati è aumentato, grazie all’introduzione delle lauree di primo livello, più brevi e appetibili per un consistente numero di giovani, compresi coloro che provengono da famiglie meno abbienti o con genitori poco scolarizzati, e chi ha un diploma tecnico o professionale e non vuol affrontare un percorso universitario troppo gravoso. Le lauree di primo livello hanno incentivato molti studenti in ritardo negli studi a passare dai corsi di laurea di durata quadriennale o quinquennale ai nuovi corsi triennali.

Nonostante la progressiva diminuzione dei 19-25enni gli ingressi nelle università toscane sono aumentati, e lo stesso vale per il numero dei laureati nei tre atenei della nostra regione. Dall’anno accademico 2000/01 a quello del. 2004/05, i laureati sono quasi raddoppiati in tutti e tre gli atenei, subendo una leggera flessione solamente nel 2002/03 a Firenze e nel 2003/04 a Pisa e Siena

Il maggiore incremento di laureati tra il 2000/01 e il 2004/05 si è avuto a Scienze Politiche (oltre il 233%), seguita da Medicina e Chirurgia (213,5%) e Agraria (102%). Sempre nel medesimo arco temporale, l’unica facoltà che ha subìto una leggera flessione nel numero di laureati è Scienze della Formazione, presente peraltro in Toscana solo nell’ateneo fiorentino. Vi è stato, dunque, un generale incremento nel numero di laureati in quasi tutte le facoltà dei tre atenei toscani, quasi raddoppiati in soli cinque anni.

La crescita dei laureati è dovuta in buona parte alla componente femminile, che ottiene anche votazioni migliori e in tempi più rapidi rispetto a quella maschile. Le ragazze scelgono le facoltà umanistiche e legate all’insegnamento (Lettere e Filosofia, Lingue e Letterature Straniere, Scienze della Formazione, Psicologia) e le facoltà mediche. Negli ultimi anni comunque il numero di ragazze che intraprende studi in materie scientifiche (Scienze Matematiche e Fisiche, e quelle applicate come Ingegneria) e tecnologiche è aumentato, anche se la componente femminile in questi corsi di laurea è ancora decisamente sottorappresentata.

Talento: una risorsa da recuperareDifficile in Italia coltivare il talento. Molti credono di uscire dall’impaccio facendo ricorso alla tradizionale creatività di cui è ricca la nostra storia, ma non è più così. I tempi sono cambiati, nell’era del talento il ruolo dell’Italia è sempre più marginale. Quali sono le ragioni del declino di una nazione che si è sempre vantata della sua naturale indole creativa? Lo spiega Irene Tinagli, nata a Empoli, ricercatrice alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh, nel libro «Talento da svendere» (Einaudi, pag. 191, Euro 14,50). Attraverso la raccolta, elaborazione e interpretazione di dati, casi, teorie e idee, racconta il fallimento delle politiche che dovrebbero motivare l’elemento chiave di ogni processo creativo: gli individui. Perché in Italia ci sono oltre quattro milioni di persone che lavorano in settori strategici come la medicina, l’ingegneria, il design, la moda. Protagonisti di piccoli o grandi gesti creativi che non sono stati ancora riconosciuti dalle università e dalle imprese, dalle comunità sociali e dalla politica. Sotto accusa tre sistemi: formazione, politica e imprese. L’università italiana è da tempo sotto accusa per la scarsa attenzione riservata alla ricerca. Secondo Tinagli gli studenti italiani sono «vittime di un sistema che privilegia saperi teorici, che non li abitua a misurarsi con problemi e a lavorare in laboratori attrezzati». Difficile in queste condizioni affrontare il mondo del lavoro, dominato da un problema che riguarda la capacità, o meglio, l’incapacità dell’intero sistema delle imprese di assorbire, utilizzare e valorizzare certe risorse e competenze. Come uscirne? Secondo Tinagli occorre «dare un obiettivo, una meta da raggiungere che sia stimolante e credibile, mentre la nostra politica ormai da anni sembra più occupata a tamponare emergenze, a elaborare politiche in negativo (ridurre il debito, diminuire la criminalità, abbassare le tasse) che a formulare una proposta positiva e ambiziosa, una visione per il nostro futuro».