Toscana

Gaza: il fallimento di 60 anni di guerre e violenze

di Romanello Cantini

In sessant’anni di conflitto mediorientale non c’è stata altra protagonista che la violenza. In altri conflitti hanno trovato spazio anche altri metodi di lotta. La non violenza ad esempio, ha fatto capolino nella lunghissima battaglia per la liberazione del Sud Africa. La non violenza è l’unico mezzo a cui ci si affida nel Tibet e nella ex-Birmania. Ma nel conflitto arabo-palestinese non c’è mai stato né da una parte né dall’altra un personaggio o un movimento che abbia invitato ad assaggiare una lotta che escluda il versamento di sangue. Durante certi periodi la violenza è stata messa in ferie, ma non è mai stata sostituita. Ognuno adopera le mani solo per colpire. Ognuno ha una sola guancia.

Senza possibilità di successo. La violenza appare da una parte l’unico modo per vincere, dall’altro l’unico modo per educare. Ma già san Tommaso ricordava che fra le molte condizioni necessarie per cui la guerra possa essere considerata giusta c’è anche quella secondo cui deve avere qualche possibilità di successo senza un inutile spreco di vite umane. Ora è difficile capire quale possibilità di piegare Israele abbia l’esercizio di bombardare il territorio israeliano con qualche razzo molto impreciso come per qualche settimana ha fatto Hamas. E d’altra parte è anche difficile capire come Hamas e la popolazione di Gaza possano essere resi più ragionevoli prima da una chiusura delle frontiere che ha costretto in pratica tutta la popolazione a vivere di carità e poi da un attacco che ha fatto centinaia di morti.

Attaccando Gaza e cercando di eliminare i capi di Hamas Israele non brevetta nulla di nuovo e non butta sul tavolo nessun asso che sia risultato definitivo per vincere la partita. Israele ha cominciato ad eliminare i capi di Hamas nel 2003, anno in cui fu ucciso lo sceicco Yassin il fondatore della organizzazione insieme ad una decina dei suoi maggiori esponenti senza per questo che la decapitazione plurima abbia indotto Hamas a più miti consigli. Nel luglio 2006 una incursione degli israeliani con carri ed elicotteri nella striscia di Gaza per vendicarsi del tiro di razzi in Israele fece 120 vittime. Ma solo qualche settimana più tardi i tiri dei missili Qassan erano già ripresi.

Enorme formicaio umano. Le conseguenze umanitarie dell’invasione di Gaza sono pesanti e gravi per l’immagine di Israele anche al di là di ogni preoccupazione umanitaria che comunque non può cambiare una realtà in cui donne, vecchi e bambini sono oggettivamente impastati in questa guerra anche se nessuno in teoria lo volesse. Gaza non è Al Alamein. In ogni chilometro della «striscia» ci stanno dentro in media più di quattromila persone. Per malizia, come sostengono gli israeliani, o per necessità, come sostengono i palestinesi, le caserme stanno dentro i condomini e le postazioni missilistiche stanno di casa accanto alle abitazioni. Separare le armi dalla gente è impossibile e colpire i miliziani senza toccare civili è solo una teoria. Il campo di battaglia di Gaza è tutto fuorché un campo. È solo un’enorme formicaio umano.

Quando domani o dopodomani l’esercito israeliano se ne andrà da Gaza lascerà qualche miliziano di Hamas in meno fra i diecimila attuali, ma lascerà tanto odio in più fra il milione e mezzo di abitanti della striscia che avanzerà abbondantemente la materia prima per fabbricare di nuovo estremisti in serie. Israele può vincere temporaneamente dal punto di vista militare, ma perderà comunque dal punto di vista della sua immagine pubblica fino a ingenerare il sospetto che sia caduto in un tranello di Hamas. C’è infatti in ogni ribellione affidata alla violenza una parte riservata spregiudicatamente alla propaganda dei fatti e alla provocazione del tanto peggio, tanto meglio. Tentare Israele a intervenire a Gaza con la bravata del lancio dei missili significa scatenare contro il nemico la rabbia per le vittime e le distruzioni, poter gridare che i civili uccisi dagli israeliani giustificano le uccisioni dei civili con gli attentati, poter agitare di fronte al mondo intero quello che si chiama non a caso «il genocidio» o «olocausto» del popolo palestinese con termini non casuali volendo così dare ad intendere addirittura che gli ebrei si sono in questo modo macchiati, ripagati e risarciti della «Shoah» di cui sono stati vittime. Insomma significa cercare di togliere loro d’addosso perfino il debito storico verso l’umanità intera.

Hamas è quello che è. Il suo statuto approvato venti anni fa è un documento non solo antisionista, ma anche antisemita. Non vuole riconoscere Israele e ha appoggiato il terrorismo dei kamikaze. Negli ultimi anni ha offerto pause nella guerra, ma non paci. Ha proposto una tregua di venti anni con Israele in cambio della restituzione dei territori occupati. Da ultimo ha proposto una tregua in cambio della fine della chiusura delle frontiere di Gaza che Israele ha rifiutato adducendo il rischio del rifornimento di armi. Per riprendere un dialogo sulla pace in generale bisogna che Hamas sia ammorbidita o sostituita. Ma credere che la benevolenza verso Israele possa far breccia fra i palestinesi della striscia quando Israele assedia e bombarda è credere che l’odio possa essere guarito con una pena inflitta in più.

Al Fatah all’angolo.

Se l’operazione «Piombo fuso» ha il fine di cancellare la influenza politica di Hamas non può che prevedere la sua sostituzione con la vecchia organizzazione di Al Fatah guidata da Abu Mazen. Ma l’attacco a Gaza distrugge anche ciò che rimane del prestigio politici di Abu Mazen. Chiuso in un angolo, l’erede di Arafat non può che attaccare gli israeliani nel momento in cui combattono contro i palestinesi: ma così non può che apparire appiattito sulle posizioni di Hamas e di fatto rafforzarle. Nelle ultime elezioni del 2006 nei territori occupati Hamas ottenne il 43 % dei voti contro il 39 % di Al Fatah. Ma è difficile che alle nuove elezioni che dovrebbero tenersi quest’anno sia punito Hamas e premiato Abu Mazen che ora viene descritto come l’alleato degli israeliani.

Israele non è in questo periodo a corto di nemici. Se ha un fronte aperto nella striscia di Gaza, ne ha uno quasi altrettanto caldo verso il Libano dove gli Herzbollah hanno già ricostituito e aumentato le forze appena danneggiate con la guerra di tre anni fa, ed infine ha il fronte più pericoloso di fronte ad un Iran che minaccia insieme la costruzione dell’atomica e la distruzione di Israele. Se non appartiene ad Israele la responsabilità di moltiplicare i suoi nemici gli si addice invece quella di moltiplicare o meno le sue guerre.

Dieci guerre. Se si mettono insieme le quattro guerre combattute contro gli stati arabi, le due contro il Libano, le due Intifade e l’assalto a Gaza il numero delle guerre arabo-israeliane ormai si avvicina a dieci. Ogni guerra, è noto, lascia sul terreno non solo morti e distruzioni, ma anche l’odio che gli fa da coda più lunga della guerra stessa così come la scia è più lunga della nave. Sono questi strati di odio sovrapposti depositati dalle guerre in corteo una dietro l’altra che hanno reso sempre più massiccia la crosta attraverso cui è impossibile aprire ancora oggi una breccia da cui far passare una stretta di mano fra israeliani e palestinesi. La lezione ripetuta del bastone non ha insegnato niente a nessuno. Il tempo cancella le ferite solo se non se ne fanno continuamente di nuove. Gli anni hanno allontanato anziché avvicinare. Lo notava anche lo scrittore David Crossman: «Israeliani e palestinesi sono oggi più radicali».

Quando la realtà ci smentisce è lei che diventa utopia e continuarla significa inseguire una astrazione oltre che una disastrosa illusione. Allora forse non sarebbe male, dopo sessanta anni di fiaschi fallimentari da una parte e dall’altra, provare anziché con nuove guerre brevi con una tregua lunga per vedere se la pausa riesce a far digrumare l’odio, se il nemico che non uccide appare meno nemico anche ad Hamas.