Toscana

Crisi greca, i ritardi dell’Europa

di Riccardo Moro

Finalmente l’Europa si è mossa a sostegno della Grecia. In sé appare come una buona notizia. L’Europa dimostra di saper intervenire quando uno dei membri è in difficoltà e offre una cifra importante, 80 miliardi di euro, uniti ai 30 messi a disposizione dal FMI. Ma le modalità con cui si è arrivati all’accordo inducono a più di una perplessità.

Riepiloghiamo i fatti. Nel 2004 in Grecia il partito di centrodestra Nuova Democrazia va al governo e avvia una gestione disastrosa. Nel giro di cinque anni, dal 2004 al 2009, il debito pubblico greco passa da 180 a 300 miliardi di euro, superando il 115% del PIL e raggiungendo l’Italia all’ultimo posto della classifica dei paesi europei. Tra clientelismo e corruzione salta anche la pace sociale. La crisi finanziaria arrivata dagli Usa aumenta la tensione. Cala il Pil, riducendo le entrate dello stato, e aumenta la disoccupazione, aumentando il fabbisogno per la spesa sociale. La pressione sulle finanze pubbliche, già drammaticamente provate dal malgoverno di Nuova Democrazia, diventa insostenibile. La popolazione scende in piazza, la polizia uccide uno studente e passano due mesi d’inferno dopo i quali il premier Karamanlis si dimette.

I socialdemocratici del Pasok vincono le elezioni e il loro leader George Papandreou, appena insediato al governo, chiede all’Europa un appoggio politico. È l’ottobre 2009 e più che denaro Papandreou chiede l’autorizzazione a sforare i parametri di convergenza europea e aumentare il debito, finanziandosi con nuove emissioni di titoli.

Passano sei mesi senza vere risposte da parte europea. I leader si rimbalzano la palla, preoccupati di non apparire troppo generosi con altri paesi di fronte al loro elettorato. La Grecia non ha una tradizione positiva: nel 2003 si scoprì che il governo, guidato allora da Costas Simitis del Pasok, aveva falsificato i dati  contabili per entrare nell’euro. Dubbi e precauzioni sono comprensibili, ma i tentennamenti hanno permesso una enorme campagna di discredito contro l’euro e più in generale le istituzioni europee. Sei mesi di articoli sulla possibilità di uscita dall’euro della Grecia, senza che una sola voce, fra i leader, si sia alzata dicendo che questa è una ipotesi giuridicamente, non solo politicamente, impossibile.

In questi mesi è aumentata la sfiducia verso l’Europa, l’euro ha perso valore e gli speculatori si sono fregati le mani. Il silenzio europeo, infatti, ha fatto impennare i tassi di interesse sui titoli greci, aumentando i costi per il governo e scoraggiando gli acquisti dei risparmiatori ordinari, timorosi della bancarotta. Gli speculatori invece hanno acquistato, sicuri che l’Europa prima o poi sarebbe intervenuta, maturando grandi profitti. Oggi finalmente l’Europa interviene, ma la situazione è molto peggiore, con deficit e debito aumentati, e i costi sono molto più alti di sei mesi fa.

Poniamoci quattro domande. Primo, era possibile intervenire prima? Sì, possibile e doveroso.  Si poteva creare un fondo di garanzia con il concorso dei singoli paesi europei che assicuravano l’acquisto di titoli greci ad un tasso concordato, in un’emissione «dedicata» da realizzare in caso di necessità. Il costo per la Grecia sarebbe stato più contenuto e il segnale ai mercati sarebbe stato chiaro: l’Europa interviene acquistando titoli, non offrendo aiuti, perché ha fiducia nella Grecia. I risparmiatori comuni avrebbero ripreso ad acquistare i titoli greci, negoziandoli a interessi ragionevoli, togliendo il gioco agli speculatori.

Secondo, perché non si è fatto? Rispondere è sgradevole. I leader europei attuali sembrano non avere la statura dei propri predecessori. Sembrano mancare di senso dello stato. O non hanno capito che lo stato oggi è l’Europa.  In alternativa dovremmo pensare che qualcuno aveva degli interessi, perché contava sulla svalutazione dell’euro per aumentare il proprio export, o sui guadagni degli speculatori per beneficiarne… Anche senza dare spazio alle malignità, la prova offerta dai leader appare comunque imbarazzante.

Terzo, che ruolo hanno avuto le agenzie di rating? Hanno sistematicamente ridotto lo status della Grecia, legittimando l’impennata dei tassi di interesse. Oggi stanno facendo la stessa cosa con Spagna e Portogallo. Se si pensa che in passato avevano giudicato affidabili i colossi bancari crollati come fuscelli nella crisi finanziaria, e che sono pagate dai grandi operatori finanziari (compresi quelli che speculano), nasce qualche dubbio sulla loro credibilità.  Ma le loro parole influenzano tuttora il mercato. Occorrerebbe riformarle.

Quarto, ci sarà una nuova crisi? Nessuno degli altri paesi europei ha dei fondamentali davvero così negativi. Ma se i leader europei esiteranno di nuovo di fronte alle pressioni, potrebbe succedere. Occorre da subito dotarsi di strumenti istituzionali per gestire situazioni di questo tipo. Mancano, ed è l’unica giustificazione a parziale giustificazione delle esitazione. Ma la prossima volta non ci saranno più scuse. Lo sanno anche gli elettori del NordReno Westfalia.

L’intervista: Paolo BartolozziUe debole, ma non c’è un «rischio contagio»di Claudio Turrini

E’ ottimista. Critico per i ritardi nel trovare un accordo, ma fiducioso che l’effetto «Grecia» non contagerà altri paesi dell’area Euro. Perché «anche la Spagna e il Portogallo sanno che se si trovassero nelle condizioni della Grecia dovrebbero dar vita a politiche drastiche di rigore e forse conviene loro adottarle già». Paolo Bartolozzi, 53 anni, fiorentino, è uno dei pochi europarlamentari toscani. Eletto più volte in Consiglio regionale, era già stato a Strasburgo dal 1999 al 2004 e poi per un breve scorcio della legislatura successiva, dopo la nomina di Tajani a commissario europeo. Nel giugno del 2009, grazie ad oltre 62 mila preferenze, è stato rieletto all’europarlamento per il Pdl. È membro, tra l’altro, della Commissione per l’ambiente, la sanità e la sicurezza alimentare. Al telefono da Strasburgo ammette che di fronte al rischio bancarotta per la Grecia, i cui governi di centro-destra e centro-sinistra «hanno continuato a presentare bilanci falsi», l’Europa «si è mossa in ritardo. E purtroppo ha dimostrato ancora una volta di non avere una forte iniziativa politica».

I dubbi della Germania hanno inciso parecchio…

«La Germania aveva ragione a pretendere una forte politica di rigore. Non poteva finanziare un paese dove si va in pensione a 57 anni contro i 68 della Germania. Tutto questo però è stato gestito male perché le posizioni della Merkel hanno fatto sì che le borse europee bruciassero un sacco di miliardi di euro. Se i tedeschi avessero detto: sì l’Europa aiuta la Grecia perché l’euro è una scelta giusta, che va difesa e tutelata sui mercati, però vogliamo che chi come la Grecia, ha falsato i bilanci e ha una serie di benefit per la sua popolazione prenda atto che questo non è più possibile e si metta in regola. Allora avremmo dato un segnale al mondo, che l’euro è una forte scelta politica».

C’è stato un deficit politico. Ma anche la Banca europea è all’altezza della situazione?

«Il Trattato di Lisbona è entrato in vigore a gennaio ma è depotenziato dal protagonismo dei singoli stati. Ci vorrà del tempo perché si imponga una governance politica forte. Mancando questa, la politica della banca centrale europea è una politica rigorosamente monetaria, che spesso non è idonea a governare i processi della globalizzazione dei sistemi finanziari ed economici».

La Germania insiste anche per rivedere il «patto di stabilità» di Maastricht…

«Con la crisi economica il patto è stato già allentato, dando la possibilità agli stati di rientrare nei parametri entro il 2011. Ma la Germania per evitare che si ripeta quello che è successo alla Grecia chiede di ridiscutere il patto. Cosa che verrà fatta nei prossimi giorni. La crisi porterà ad una revisione degli accordi e ad una riduzione del debito pubblico per i paesi dell’area euro».

La nuova moneta finora si era comportata bene. C’è il rischio che venga colpita dagli speculatori?

«Non vedo questo rischio. Dopo le misure prese l’euro rimane una moneta stabile.  Certe dichiarazioni come quelle della Merkel lo avevano messo a rischio. Ipotizzare di buttar fuori la Grecia dall’euro significava che non c’era compattezza tra i paesi che utilizzano questa moneta».

Poi c’è il capitolo società di rating…

«Nella passata legislatura nella Commissione di cui facevo parte decidemmo già che le società di rating per operare sui mercati europei devono avere un riconoscimento dell’Ue».

Ma oltre a questo servirebbe anche una società europea di rating?

«È una necessità. Una società di rating europea che sotto autorità istituzionali dia le proprie valutazioni garantirebbe gli investitori e rafforzarebbe il sistema dei mercati finanziari. Abbiamo visto che le grandi società di rating non sono affidabili come ha dimostrato la vicenda della Lehman Brothers, che pochi giorni prima della bancarotta aveva ricevuto due “A”».

Il Trattato di Lisbona è entrato in vigore da pochi mesi. Sta cambiando davvero qualcosa nell’Unione europea?

«Da un punto di vista normativo, non è più la stessa Europa, perché c’è un ruolo maggiore del Parlamento e comunque ha iniziato a definire le proprie strategie in diversi campi. Però i paesi che hanno ratificato il Trattato, poi di fatto sono molto restii a cedere competenze. Anche nell’individuare i massimi responsabili comunitari si è scelto un profilo basso. Potendo partire in quinta, si è scelto di partire in seconda».