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Fame nel mondo: Michel Roy (Caritas), «L’umanità è in pericolo ma non ci interessa»

«Serve una coscienza mondiale più forte che si renda conto che l'umanità è in pericolo». Così Michel Roy, segretario generale di Caritas internationalis commenta l'allarme dell'Onu: il mondo sta vivendo la peggiore crisi umanitaria dal 1945. A rischio 20 milioni di persone per le carestie. Gli effetti peggiori sono in Sud Sudan, Somalia, Yemen e Nigeria.

Le Nazioni Unite hanno lanciato nei giorni scorsi un allarme senza precedenti: il mondo sta vivendo la peggiore crisi umanitaria dal 1945. A rischio 20 milioni di persone, che non hanno cibo a sufficienza a causa della carestia. Gli effetti peggiori sono in Sud Sudan, Somalia, Yemen e Nigeria. Per affrontare questo «momento critico della storia» servono almeno 4,4 miliardi di dollari entro il mese di luglio – questo l’appello dell’Onu ai governi – altrimenti «la gente semplicemente morirà di fame». Conferma la gravità della situazione Michel Roy, segretario generale di Caritas internationalis.  Con una nota di amarezza: «Il mondo non si preoccupa del benessere dei poveri».

Dalla vostra esperienza confermate l’allarme dell’Onu? «Sì, non so se è la peggiore crisi dal 1945 ma sicuramente è una situazione molto problematica. Le Nazioni Unite hanno parlato di carestia in 4 Paesi ma ce ne sono di più in difficoltà. Le ragioni sono dovute principalmente ai conflitti o ai cambiamenti climatici, entrambi provocati dall’azione umana. È questo che mi addolora di più quando si parla di fame e carestia. In Sud Sudan, ad esempio, una parte del governo cerca di fare in modo che i ribelli non siano supportati dalla popolazione, quindi attaccano i villaggi e la gente fugge dove non c’è nulla da mangiare. Sul fiume Nilo ci sarebbero grandi potenzialità agricole ma il governo sudsudanese e i ribelli non si preoccupano del popolo. La Somalia, invece, è sotto il potere degli shabab: qui è molto difficile portare cibo per l’instabilità e le tensioni. In Yemen c’è da tempo una guerra innescata dall’Arabia Saudita perché non vuole un potere sciita in questo Paese. Nel nord-est della Nigeria ci sono ancora le milizie dei fondamentalisti islamici di Boko Haram. La comunità internazionale non dovrebbe accettare tutto ciò. Dare cibo è assolutamente necessario però bisogna lavorare sulle cause dei conflitti».

Quali difficoltà vi raccontano le Caritas locali?

«Per distribuire cibo servono condizioni di sicurezza che non ci sono. Nello Yemen non c’è una Chiesa locale; in Somalia ci sono programmi nel nord e nel centro, dove lavoriamo con le associazioni locali. In Nigeria stiamo intervenendo. Caritas Sud Sudan ci ha chiesto aiuto, la settimana prossima incontreremo i responsabili. Vedremo cosa fare di più».

È vero che il Sud Sudan è oggi la più grave emergenza in Africa? Il Papa vorrebbe andare con il primate della Chiesa anglicana Justin Welby ma ancora non si sa se il viaggio sarà possibile…

«Sì. Io ho conosciuto questo Paese prima e durante l’indipendenza. C’erano immense speranze di cambiamento invece è un disastro. Sarebbe molto bello se Papa Francesco riuscisse ad andare. A Juba è possibile. Spero che farà questo viaggio. Normalmente non andiamo ai viaggi papali ma stavolta, se si farà, abbiamo chiesto di partecipare anche noi insieme all’organizzazione caritativa anglicana, per mostrare l’importanza della risposta umanitaria delle Chiese».

Nel XXI secolo è quasi incomprensibile parlare di gente che muore ancora di fame. Perché non si riesce a risolvere definitivamente il problema?

«Penso che la coscienza individuale e collettiva della gente sia un po’ debole. Siamo preoccupati di cose che non hanno una vera importanza, come i nostri telefonini. Non ci rendiamo conto di ciò che è veramente serio. Papa Francesco parla della globalizzazione dell’indifferenza: questa è una delle sfide di questo momento storico».

L’Onu chiede ai governi 4,4 miliardi di dollari: perché non rispondono?

«Il Wfp/Pam è il barometro per capire se la comunità internazionale risponde o non risponde alla sfida. L’Onu prova a portare aiuti ai rifugiati, agli sfollati, nelle emergenze maggiori causate dai conflitti in Siria, Iraq e Paesi vicini ma ci sono tanti conflitti nel mondo che non preoccupano nessuno. La comunità internazionale, invece di impegnarsi e fare pressione perché cessino le ragioni delle migrazioni, non si preoccupa delle conseguenze. Serve una coscienza mondiale più forte che si renda conto che l’umanità è in pericolo. Bisogna agire prima che sia troppo tardi. Sono trascorsi sei anni dall’inizio della guerra in Siria, chi si è preoccupato di cercare delle soluzioni? La colpa è della volontà di potere dell’uomo e della mancanza di coscienza di chi lascia fare».

Il cibo, gli aiuti a pioggia, servono solo a tamponare le emergenze. Di cosa c’è bisogno, invece, perché queste situazioni non diventino strutturali?

«Quando manca una politica agricola per produrre cibo localmente, la questione della governance locale è fondamentale. In Burundi, ad esempio, c’è un presidente che vuole rimanere al potere a tempo indeterminato, nella Repubblica democratica del Congo, in Rwanda, in Congo Brazzaville è lo stesso. In Venezuela il popolo non ha cibo, deve andare a cercarlo in Brasile. Ma chi è al potere e i militari non hanno problemi né di cibo, né di medicine. Sono tutte cause non naturali. Che la popolazione mangi o non mangi non è tra le loro priorità».