I rapimenti e le morti di tanti sacerdoti e fedeli, così come la dolorosa pagina scritta con il sangue da padre Ragheed Ganni e da mons. Raho arcivescovo di Mosul sono i chiari esempi del martirio dei cristiani caldei in Iraq. Lo ha detto oggi il procuratore caldeo presso la Santa Sede, mons. Philip Najim intervenendo alla Lateranense all’incontro La speranza alla prova promosso dall’ufficio ecumenismo e dialogo del Vicariato di Roma. Si sperava in un futuro migliore ed invece abbiamo una situazione sempre peggiore ha spiegato – perché per i non cristiani questi martiri possono non significare nulla, solo barbare uccisioni contro le quali nessuno si leva, nessuno istruisce processi e persegue gli assassini, ma per noi cristiani sono un’ennesima sfida e una grazia: abbiamo la rinnovata possibilità di spiegare al mondo intero perché Cristo è morto e quale è la bontà di questa morte, ed ecco perché in molti non lasciano l’Iraq e non cedono alle minacce affollando chiese e custodendo la millenaria tradizione spirituale dell’oriente cristiano. Davanti alle case distrutte, alle famiglie in fuga come a Mosul, davanti a tanta violenza anticristiana, ha aggiunto Najim, come non parlare di martirio della chiesa caldea, di più, della chiesa intera presente sul territorio iracheno. Non solo i caldei soffrono, ma tutti i cristiani e tutte le minoranze. Sofferenza condivisa anche dai caldei della diaspora che non versano sangue più delle volte, ma arrivano già spogliati delle loro personalità e vivono con queste cicatrici per tutto il tempo. La cosa che forse li tiene in vita è la loro identità etnica e religiosa. In Iraq, seppur dicono ci sia la libertà di culto, c’è il pericolo che durante le funzioni la chiesa venga fatta saltare in aria ha dichiarato il Procuratore – In Europa, se una domenica il fedele caldeo è a messa, non sa se la domenica successiva avrà la stessa possibilità perché non ci sono sacerdoti sufficienti per la diaspora, e non riescono a soddisfare tutti. E le gerarchie del luogo è stata la denuncia – non sempre sono pronte o preparate a venirci incontro, anche se è un obbligo grave per loro, come recita il nostro codice, mentre il loro non dice nulla in proposito. La forza ci viene dal di dentro, dalla fede, dalla fierezza, dal nostro essere iracheni ha concluso mons. Najim – altrimenti mi parrebbe che padre Ragheed, mons. Raho, e tutti gli altri siano morti invano, e non posso crederlo perché chi perde la sua vita per Cristo, la ritrova. Ed allora ritroviamo Padre Ragheed, mons. Raho e tutti i martiri cristiani nella vita delle chiese dell’Iraq, aperte e piene nonostante quel che accade. Il testo integrale dell’intervento di mons. Najim è disponibile sul sito baghdadhope.Sir