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Radicalismo e Islam. La necessità di un «Concilio» pan islamico per uscire dal corto circuito
Radicalismo, Islam, Europa. Gli attentati di Bruxelles e Lahore in Pakistan hanno riaperto la discussione sulle radici islamiste del jihadismo. Il terrore miete vittime anche tra i musulmani. Intervista con il giornalista Michele Zanzucchi.
«Innanzitutto bisogna dire che il radicalismo che trova il suo alveo di nascita in ambiente islamico, deve essere sempre considerato come un tumore di questo ambiente». Michele Zanzucchi è il direttore della rivista Città nuova. Profondo conoscitore dell’Islam, dopo Charlie Hebdo, ha scritto un libro «L’islam spiegato a chi ha paura dei musulmani» (Città Nuova). Gli attentati di Parigi, Bruxelles, Lahore. Ma anche il terrorismo diffuso in Nigeria, Kenya, Repubblica Centrafricana. Nella lista delle vittime, non figurano solo cristiani dichiarati. Spesso e paradossalmente la «jihad» miete sangue e lacrime anche nella comunità musulmana.
L’esempio pakistano è in questo senso emblematico. Secondo i dati resi noti dalla polizia di Lahore, tra le 74 vittime dell’attacco suicida di Pasqua al grande parco Gulshan-e-Iqbal, 14 vittime sono state identificate come cristiane e 44 come musulmane.
Sembra un cortocircuito. Che cosa sta succedendo nel mondo musulmano?
«Il radicalismo islamista trova le sue radici in alcune scuole di pensiero come la salafita e la wahhabita. Sono scuole che si sono divise in innumerevoli rivoli e questo rende molto complessa la situazione. Ci sono alcune frange del wahhabismo e alcune frange del salafismo che sono arrivate al fondamentalismo violento».
Quale obiettivo perseguono?
«Questo radicalismo vuole tornare alle radici dell’Islam ma fa questa operazione usando alcuni passaggi del Corano dimenticando la «lettura globale» che l’esegesi corretta deve sempre tener presente. Il problema principale del radicalismo è proprio questo: nascere da una lettura parziale e discutibile del Corano. Direi ancora di più: alla scuola di Baghdad nell’XI secolo erano in qualche modo più avanzati di quanto non lo siano adesso nella lettura del Corano. E’ il segno di un Islam che nel tempo si è ripiegato su se stesso. La prima soluzione per venirne fuori è quindi quella di dare una lettura matura del Corano».
Alcuni hanno addirittura evocato la suggestione di una sorta di «Concilio» all’interno dell’Islam.
«L’idea di un Concilio pan-islamico è attualmente impensabile ma nello stesso tempo non si può non desiderarlo. Credo che gli avvenimenti recenti stiano spingendo le menti più lucide dell’Islam a capire che si devono trovare dei minimi comuni denominatori attorno ai quali ci si possa incontrare e costruire il proprio pensiero, anche all’interno dell’Islam».
Esistono autorità religiose in grado di avviare questo processo?
«E’ difficile. L’università di Al Azhar negli ultimi tempi ha perso credibilità se lo stesso Al Sisi – pur con le sue ambiguità – ha invitato l’istituzione a pensare un islam diverso, mettendo il dito su una questione vera. In campo sciita la questione è diversa. L’Iran ha una possibilità di controllare meglio il pensiero e l’agire degli sciiti. Purtroppo – e questa è una complicazione nella complicazione – il radicalismo si nutre spesso, in particolare in Pakistan dove gli attentati sono frequentissimi, della lotta tra sunniti e sciiti».
Si ha l’impressione di un vicolo cieco. Dove la via d’uscita?
«Che cosa può fare l’islam europeo? Io conosco in particolare quello francese e quello italiano. Ha le sue specificità: ad esempio ho potuto constatare che i musulmani che sono in Europa stanno facendo una grande opera di revisione del loro modo di vivere la religione, alla luce del pensiero ermeneutico sviluppato in Europa. Credo che chi ha una visione globale del Corano non possa arrivare al radicalismo».
Eppure i ragazzi che hanno aderito alla jihad sono figli della nostra Europa. Quali responsabilità ha l’Europa?
«Le responsabilità sono molteplici e ogni sociologo e pensatore sta formulando le proprie. Quello che mi sembra indiscutibile è l’invecchiamento dell’Europa che porta a stringersi e trincerarsi su posizioni acquisite, e a non capire che la convivenza civile necessita invece sempre di un rinnovamento e una elasticità di pensiero che spesso non c’è. In secondo luogo, il relativismo profondo che attraversa il pensiero europeo in questi ultimi tempi, non facilita le cose e rende sempre più flebile l’identità europea. In questo senso, non credo che l’inserimento della dizione delle radici giudeo-cristiane nella Costituzione europea sia a questo punto così fondamentale. E’ nei fatti che bisogna guardare e nei fatti il cristianesimo è stato emarginato e i cristiani hanno avuto forti tentennamenti a vivere la loro stessa identità».
Che fare?
«L’Europa ha una grande chance. Quella di un cristianesimo che può – e Papa Francesco lo dimostra e sta spingendo in questa direzione – ritrovare le sue capacità relazionali e ricercare la verità non come un bene immobile che resta relegato nell’alto dei cieli o nei tomi dottrinali di opere omnia ma come una verità capace di capirsi in relazione con l’altro».