Toscana

TERRORISMO: PRIMO PROCESSO NUOVE BR; ERGASTOLO A LIOCE

Ergastolo: il primo processo alle nuove Brigate rosse si è concluso stasera a Firenze con la condanna a vita per Nadia Desdemona Lioce, «militante complessiva» delle Br-Pcc – come viene definita in vari documenti dell’organizzazione -, giudicata responsabile di omicidio e tentato omicidio per la sparatoria del 2 marzo 2003 sul treno Roma-Napoli in cui vennero uccisi il sovrintendente della Polfer Emanuele Petri e il brigatista Mario Galesi. La sentenza, letta dal presidente della corte d’assise di Arezzo, Luciana Cicerchia, poco prima delle 19,45, di mercoleì 9 giugno, dopo quasi nove ore di camera di consiglio, accoglie in pieno le richieste dei pm Luigi Bocciolini e Giuseppe Nicolosi, con cui stasera era in aula anche il procuratore aggiunto Francesco Fleury. La riconosce colpevole di omicidio (di Emanuele Petri) e di tentato omicidio (degli altri due sovrintendenti della Polfer, Bruno Forunato e Giovanni Di Fronzo) e le conferma l’aggravante della finalità di terrorismo.

La corte, a Firenze in trasferta per motivi di sicurezza dalla prima udienza (il processo era cominciato il 3 maggio), condanna Nadia Lioce anche al pagamento di forti provvisionali alle parti civili, fra cui 160.000 euro per Alma Broccolini, la vedova Petri, che alla lettura della sentenza è scoppiata in lacrime. Provvisionali leggermente minori per le altri parti civili (il figlio, il fratello e la sorella di Petri e Bruno Fortunato) e 150 mila euro a favore del Ministero dell’Interno. Respinta invece la domanda di provvisionale da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri. La vedova Petri, commenta la sentenza in lacrime: «Per loro l’episodio del 2 marzo è stato ‘piccolo e modestò, avete visto come stamani ne hanno parlato. Per me quella mattina la vita è stata stravolta. Ma oggi giustizia è fatta. È una condanna giustissima anche se non mi restituisce mio marito”. «Ringrazio i pm – ha aggiunto la signora Petri – tutte le parti civili, ma il mio grazie va soprattutto ai poveri ragazzi che ho conosciuto qui e che fanno nell’ombra, tutti i giorni, il loro lavoro”. Visibilmente soddisfatti i pm Bocciolini e Nicolosi e il procuratore aggiunto Fleury.

«La corte – ha spiegato per tutti Nicolosi – ha accolto tutte le nostre richieste, ma è importante soprattutto il riconoscimento dell’aggravante della finalità di terrorismo”. «La sentenza ci lascia indifferenti”. Questo invece il commento dell’avvocato Attilio Baccioli, difensore di Nadia Lioce. «I processi politici si concludono in questo modo. Dunque, nulla di imprevisto».

Alla lettura della sentenza l’imputata era assente. Stamani aveva chiesto infatti di poter restare nella sua cella a Sollicciano. Quello che doveva dire l’ha detto in mattinata, parlando a braccio dalla gabbia numero 2 per respingere le accuse di inumanità e di scarso senso di realtà che ieri le avevano lanciato i pm. «Sono stata quasi messa all’indice come una strega», «accusata nelle requisitoria del pm di mancanza di senso della realtà e di disprezzo della vita umana», – ha detto – ma Claudio Scajola, «che dovette dimettersi per le frasi che aveva detto è stato reintegrato nel governo». «Qui in questa aula ci sono legali che rappresentano il ministero dell’interno, di cui Scajola era stato il primo titolare in questa 14/a legislatura della Repubblica. Chiedo: a chi manca il senso della realtà, chi sta facendo propaganda?».

Nadia Lioce aveva preso la parola alle 10,20, dopo che il suo difensore, l’avvocato Baccioli, aveva concluso la sua arringa. Baccioli non è entrato nel merito, limitandosi a un intervento di tipo politico e sostenendo che la Lioce non era nient’ altro che «una militante comunista», una «prigioniera nella guerra» fra «masse sfruttate e minoranze capitaliste che ha attraversato il secolo». Il diritto penale ordinario, secondo Baccioli, «non è applicabile a chi conduce una lotta politica»: dunque ci sarebbe un presunto «difetto di giurisdizione della corte” trattandosi, appunto, di «un fatto di guerra». Baccioli, in particolare, ha parlato della sparatoria sul treno come di un «piccolo, modesto episodio occorso incidentalmente”, aggiungendo che alla base della reazione dei due brigatisti c’ erano «il diritto e il dovere di due militanti rivoluzionari di non essere catturati». Concetti che la Lioce ha poi ripreso negli appunti (tre fogli fitti scritti a mano) letti dalla gabbia numero 2. L’indirizzo tattico delle Br – ha affermato la donna – è di evitare per quanto possibile lo scontro militare, ma di affrontarlo, «se necessario per assolvere al diritto di sfuggire alla cattura». Cosa che era accaduta nel caso del treno, con l’uccisione di Emanuele Petri e Mario Galesi definite «perdite fisiologiche da entrambe i lati». (ANSA).