Toscana

IRAQ, 600 MILITARI USA E 7 MILA IRACHENI UCCISI IN UN ANNO DI «DOPOGUERRA»

Seicento morti da un primo maggio all’altro, 140 solo nel tremendo aprile appena concluso; e il programma televisivo statunitense “Nightline” della rete televisiva ‘Abc’ – sdegnosamente rifiutato da otto emittenti affiliate di proprietà del conservatore Sinclair Broadcast Group – presenta 40 minuti di fotografie di 500 caduti americani mentre Ted Koppel, personaggio televisivo di primo piano, scandisce i loro nomi. Grandi quotidiani come “Usa Today” e “Washington Post” avevano già pubblicato ieri centinaia di foto e nomi. Si chiude così negli Stati Uniti – come in un grande ‘memorial mediatico’ – il primo anno che, a “missione compiuta’ come annunciò il presidente Gorge W.Bush il 1° maggio 2003, avrebbe dovuto essere di ‘dopoguerra’ e di ricostruzione. E in cui, in mancanza di dati ufficiali, secondo l’agenzia di stampa americana Associated Press che ne ha tentato una stima, sarebbero morti almeno 7000 iracheni, quasi 1400 solo in aprile, mese preso a campione. Ovvero, dieci caduti iracheni per ogni caduto americano, visto che ai seicento dell’ultimo anno, bisogna aggiungerne più di 130 anteriori al primo maggio 2003.

Ma oltre che con questi angosciosi bilanci – in cui le vite umane diventano numeri – aprile è un mese che si è chiuso con altri numeri forse meno drammatici,quelli dei sondaggi, ma a dir poco altrettanto sconcertanti: a parte quello già noto da giovedì che per la prima volta ha visto più americani critici che favorevoli alla guerra in Iraq, un’altra inchiesta demoscopica commissionata in Iraq e pubblicata ieri da grandi mezzi d’informazione americani – al di là delle interpretazioni capziose che qualcuno ha tentato di farne – dice chiaro e tondo che se il 61 % degli iracheni vorrebbe vedere Saddam Hussein processato e condannato a morte, il 71 % considera comunque le forze della coalizione guidate dagli Usa “forze di occupazione” e il 57% vorrebbe che lasciassero immediatamente il Paese. La domanda di base era chiara e senza mezzi termini: sono occupanti o liberatori? Quel 71 diventa addirittura 81, precisano i giornali americani, se si depurano i dati dal parere della popolazione curda del nord Iraq, notoriamente filo-americana. E le risposte, sottolineano gli esperti di sondaggi, vennero date prima che si aprissero i focolai di Fallujah e di Najaf. Forse, il senatore Ted Kennedy, che ieri si era presentato in Senato con il cartello “Missione non compiuta”, ne aveva saputo qualcosa in anticipo. Il 63% dei circa 3500 iracheni intervistati esprime comunque ottimismo sul futuro dell’Iraq ma soltanto tra cinque anni, ma appena l’11% ritiene che le forze della coalizione si siano davvero impegnate a riattivare servizi essenziali come l’erogazione dell’energia elettrica e dell’acqua. Per quanto marginale rispetto agli altri due, oggi, in occasione della prima visita del neo-primo ministro canadese Paul Martin a Washington, un sondaggio canadese della ‘Ipsos-Reid’ aggiunge sulle ferite un pizzico di sale: più di 4 canadesi su cinque – l’82% del campione rappresentativo dei circa 30 milioni di canadesi che dividono migliaia di chilometri di confine con gli Stati Uniti e di solito considerano più verde l’erba del potente vicino – hanno espresso accordo con la frase: “Il presidente Bush non è necessariamente un amico del Canada e non sa praticamente alcunché delle questioni canadesi”. A quanto pare, un’altra missione non proprio compiuta, che renderà tutto più difficile anche a Paul Martin, successore di Jean Chretien che aveva osato dire no alla guerra in Iraq; Martin, uomo d’affari ed ex-ministro delle Finanze, in carica da pochi mesi e con elezioni in vista, conta molto sul rinnovo di buone relazioni tra Ottawa e Washington anche per superare uno scandalo interno che gli sta facendo perdere molti consensi. E i giornali canadesi, proprio alla vigilia di questo primo incontro Bush-Martin, non sono stati avari di notizie sulle torture che alcuni militari americani hanno inflitto agli iracheni. Sembrava che questo tragico aprile iracheno potesse chiudersi almeno con la buona notizia della liberazione dei tre ostaggi italiani, invocata ieri anche da Papa Giovanni Paolo II. La notizia, poco prima di mezzanotte, aveva fatto entrare in fibrillazione i mezzi d’informazione non solo italiani; ma nelle prime ore della notte, pur essendo stato reso noto che i tre sono in buona salute, si è anche appreso che la liberazione non sembra imminente, nemmeno – come ha scritto l’Agenzia di stampa italiana Ansa – con l’intervento di un’eventuale “delegazione ad altissimo livello del mondo pacifista e della Societa’ Civile pronta a partire per Baghdad”.Misna