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Anniversario Falcone: Grasso, «Oggi la mafia è invisibile ma continua a inquinare l’economia e gli affari»

«Sono giorni indimenticabili. Lo sono per quasi tutte le persone che erano già nate, con chiunque parlo mi sento rispondere: “io ricordo cosa facevo”. Momenti eccezionali che hanno lasciato una traccia indelebile nella nostra vita». Pietro Grasso, ex procuratore capo a Palermo e poi presidente del Senato, solo per citare due dei tanti incarichi che ha ricoperto, ricorda così il pomeriggio del 23 maggio del 1992 quando il suo amico Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta morirono nel primo atto della strategia stragista della mafia corleonese. Su quell’auto, con Falcone e Morvillo, doveva esserci pure lui, come accadeva in quel periodo quando insieme tornavano da Roma dove Falcone era direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia. Grasso più volte ha ricordato la casualità che fece prendere all’ex presidente del Senato un volo per Palermo senza aspettare Falcone e la moglie, «altrimenti sarei stato in auto con loro perché solitamente mi dava un passaggio nel volo che gli metteva a disposizione il ministero per motivi di sicurezza da Roma a Palermo». Un rapporto, quello con Falcone, che ha descritto centinaia di volte davanti ai giovani di tutta Italia e su cui ora ha scritto un libro, «Il mio amico Giovanni», edito da Feltrinelli, che verrà presentato anche a Firenze il 27 maggio prossimo, alle 18, in occasione dell’anniversario della strage dei Georgofili. «La notizia dell’attentato a Capaci l’appresi dalla mia scorta che via radio aveva sentito che era avvenuta una forte esplosione lungo l’autostrada. Arrivavano notizie frammentarie tipo: “è scoppiata l’autostrada, un’auto con tre nostri colleghi sbalzata via. Pare che ci sia Fox in macchina”, (Fox era il nome in codice di Falcone), Monza 500 era l’auto di scorta”. Poi arrivò la notizia che lui e Francesca erano stati trasportati ancora in vita all’ospedale e quindi a sirene spiegate andai all’ospedale di Palermo. Dopo un po’ dal Pronto soccorso vidi uscire Paolo Borsellino – era arrivato poco prima – e dal suo viso capii che non c’era più niente da fare. Ci siamo abbracciati davanti all’ospedale. Purtroppo in serata arrivò la notizia che anche Francesca non ce l’aveva fatta».Iniziò lì la nuova strategia della mafia?«In realtà nel 1989 c’era stato l’attentato all’Addaura, la villa che Falcone aveva preso per le vacanze estive. Falcone disse che “menti raffinatissime” lo avevano ideato perchè la mafia ormai aveva convergenza di interessi con centri occulti di potere. Stava indagando sul riciclaggio di denaro proveniente dagli stupefacenti. Qualcuno cercò di farlo passare come un falso attentato, come se lo stesso Falcone avesse organizzato la cosa per attirare l’attenzione, per fare la vittima ed essere nominato procuratore aggiunto a Palermo. Prima la mafia non aveva mai adottato queste strategie che poi continuarono con l’accelerazione dell’attentato a Borsellino (dove il 19 luglio morirono altri cinque agenti) e l’anno dopo con le stragi nel continente a Maurizio Costanzo, i Georgofili a Firenze, poi Milano e Roma e il fallito attentato all’Olimpico. Una stagione un po’ fuori dal modo di agire di Cosa nostra che ha sempre cercato di convivere con il potere, di infiltrarsi nell’economia».I corleonesi vennero sconfitti dalle nuove leggi dello Stato, da voi magistrati a Palermo guidati da una figura molto cara a Firenze come Antonino Caponnetto, o da altro?«Di Caponnetto ho un ricordo bellissimo: prima di entrare nell’aula del maxi processo come giudice a latere, mi dette un buffetto sulla guancia e mi disse: “vai avanti ragazzo a testa alta e schiena diritta e segui sempre la voce della tua coscienza”. Una frase che non dimenticherò mai: sono sempre stato legato a ‘nonno Nino’. A Palermo, tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi degli anni ‘80 ci sono state delle cose veramente terribili per un Paese che si definiva democratico. Erano stati decapitati i vertici della Regione con Piersanti Mattarella, Boris Giuliano, Terranova, poi il procuratore Costa, il capitano dei carabinieri Basile, lo stesso Chinnici, La Torre, Dalla Chiesa e non c’era una reazione nei confronti della mafia. Questo manipolo di magistrati iniziò una sorta di guerra di liberazione di un popolo assoggettato da una cappa criminale che aveva intorno, che noi tutti avevamo intorno. Quella guerra l‘abbiamo fatta attraverso il maxi processo, con i codici, le leggi, con strumenti nuovi come i collaboratori di giustizia, come Tommaso Buscetta e tanti altri. Questa è stata la lotta vincente contro la mafia».E sui rapporti tra mafia e politica?«La mafia, prima, era abituata a convivere con il potere; a Palermo c’era una perfetta sovrapposizione tra scelte politiche e scelte mafiose. Noi ribaltammo quella situazione. Ci fu una reazione eccezionale. La Mafia fece un cattivo affare nel colpire Falcone e Borsellino: la mafia corleonese è stata distrutta, resa inoffensiva, portata in carcere con fine pena mai e dove i suoi capi, Riina e Provenzano, sono morti. Manca ancora Matteo Messina Denaro ma speriamo che si possa catturare al più presto».E oggi?«Oggi la mafia è tornata all’antico, cerca quei rapporti, è diventata invisibile con la strategia della sommersione che fu inaugurata da Provenzano dopo le stragi. Sembra non esista più e infatti non se ne parla più. Non ci sono fatti eclatanti, sono aumentati più gli omicidi in famiglia che quelli mafiosi. La violenza non è visibile ed è tutto funzionale a una nuova strategia di infiltrazione nell’economia, negli affari. Bisogna liberare il Paese da questa mafia che inquina l’economia, dalle sempre possibili connivenze con la politica locale o con quella nazionale. Ma non mi sentirei di dire che si identifica soltanto con l’inquinamento di economia e finanza perché significherebbe negarne l’esistenza. Non dimentichiamo che usa sempre l’intimidazione e la violenza quando è necessaria, ma preferisce prima provare con il coinvolgimento e la convenienza, ma continua a incutere quel timore che è la sua caratteristica da cui derivano l’omertà e il silenzio. Dire che la mafia è solo affari sarebbe come dire che la mafia non c’è più e invece non è così».Quale politica oggi la combatte?«La lotta alla mafia non dovrebbe avere colorazioni politiche perché attenta alla libertà dei cittadini, crea privilegi, favoritismi. Dovrebbe essere ai primi posti dei programmi di qualsiasi partito. La politica, con la P maiuscola, dovrebbe combatterla per difendere i principi di legalità, giustizia e eguaglianza. Oggi c’è una maggiore consapevolezza nei cittadini e noi dobbiamo creare una nuova classe dirigente improntata ai principi di cui rimangono simboli Falcone e Borsellino, ai valori della legalità che non è solo rispetto delle leggi, ma difesa dei diritti, rispetto del prossimo, difesa dell’ambiente, cura dei più deboli».