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Visentini (sindacati europei): “Recovery Plan, bisogna far presto. Rischiamo l’ecatombe sociale”

Visentini, triestino, guida i sindacati europei (European Trade Union Confederation in inglese, Confédération européenne des syndicats nella versione francese) che rappresentano 45 milioni di lavoratori provenienti da 90 organizzazioni sindacali in 38 Paesi europei, più 10 federazioni sindacali europee.

Un quadro fosco, quindi. E le “Previsioni economiche” recentemente rese note dalla Commissione europea lo hanno confermato. Lei cosa vede nel futuro dell’Europa?È ovviamente difficile fare previsioni precise, comunque siamo molto preoccupati. Non possiamo certo trascurare gli ostacoli che sta incontrando il Quadro finanziario pluriennale dell’Unione europea, cui è collegato il Recovery Plan; inoltre vi è ormai la certezza che i fondi destinati agli Stati non arriveranno prima di giugno o luglio prossimi, anche per tutte le procedure politiche che si devono compiere (ratifica dei parlamenti nazionali, emissione dei bond…). Questo ci fa capire che abbiamo di fronte circa sette o otto mesi di disastro. Vi sono migliaia di imprese coinvolte nella crisi, decine di milioni di persone sospese dal lavoro che non sanno quando potranno riprendere l’attività. E anche se si dovesse registrare un calo della pandemia, non s’intravvede una possibilità concreta di ripresa economica prima della seconda metà del 2021. È chiaro che quando si sta per così tanto tempo in recessione, poi recuperare diventa difficilissimo. Fra l’altro con questi lockdown parziali o totali che si registrano in Europa, le Pmi e i lavoratori e le lavoratrici che non hanno accesso alle misure di emergenza – quindi ammortizzatori sociali o compensazioni economiche per le imprese – potrebbero scomparire dal mercato economico e del lavoro. Quali le possibili risposte?Noi stiamo lanciando un appello accorato alle istituzioni europee, ma soprattutto ai governi nazionali, perché vi sia una proroga di tutte le misure di emergenza finora adottate almeno fino al giugno del prossimo anno. L’Italia ad esempio ha prorogato la Cassa integrazione solo fino al marzo prossimo, la Germania invece ha reiterato un’analoga misura per tutto il 2021. Ma questo non basta. Ci sono infatti tutti i lavoratori autonomi, atipici, precari, a termine, stagionali e purtroppo anche in nero che hanno ricevuto pochissimo (una media di 600 euro al mese, da aprile a giugno) durante lo scorso lockdown, e ora c’è la prospettiva che non prendano nulla. Pensiamo ai settori dei media, della cultura, degli artisti, del turismo… Nei decreti Ristori soltanto una parte di queste categorie riceverà aiuti una tantum. Ciò avviene non solo in Italia ma anche in diversi Paesi Ue. Ecco dunque la necessità di estendere il periodo di copertura e anche le categorie interessate ai sostegni. Altrimenti rischiamo un’ecatombe sociale nei prossimi mesi, dalla quale diventerebbe difficilissimo risollevarsi. Problema-disoccupazione: quale la realtà?Abbiamo numeri piuttosto precisi per quanto riguarda, oggi, la disoccupazione o la sospensione dal lavoro.In questo momento ci sono quasi 20 milioni di lavoratori dipendenti che sono diventati definitivamente disoccupati; questo senza contare gli autonomi che hanno avuto una diminuzione del reddito. E poi ci sono più di 40 milioni di persone che sono sospese dal lavoroperché poste in cassa integrazione o provvedimenti simili. Se non si prevede un’estensione delle misure di emergenza, almeno la metà di queste persone diventeranno disoccupate, portando il numero totale di coloro che sono espulsi dal mercato del lavoro a 40 milioni, il doppio del totale dei disoccupati generati dalla crisi economica e finanziaria del 2008-2011. Quindi?Quindi benissimo il Recovery Plan e altre misure messe in campo dall’Ue: ma questi fondi arriveranno solo nei prossimi mesi, mentre noi oggi dobbiamo affrontare l’emergenza, aiutare le imprese e proteggere le famiglie. Siamo anche coscienti che tutte queste misure (compresi il Mes o il Sure) generano debito; però è anche vero che questo debito di fatto non costa niente, perché i bond sono emessi a tasso zero, e la stessa Commissione ha sospeso i parametri del Patto di stabilità e crescita. Di fatto è un debito assolutamente sostenibile nel lungo periodo. Del resto se non corriamo subito ai ripari andiamo incontro a una tragedia. In questo momento la nostra unica preoccupazione è che si mettano in campo tutte le risorse possibili per proteggere l’economia e il mercato del lavoro. Eppure, nonostante tutto questo, i governi di due Paesi, Polonia e Ungheria, stanno intralciando l’approvazione del budget pluriennale Ue cui è connesso il Recovery Plan. Cosa ne pensa?È davvero incomprensibile la posizione assunta da questi governi per impuntature ideologiche che non tengono conto della realtà.Fra l’altro Polonia e Ungheria tengono un atteggiamento ipocrita: bloccano il Recovery Plan, creando un danno a tutti gli altri Stati Ue, senza peraltro provvedere con misure adeguate per i loro lavoratori e imprese in affanno.Questi due Paesi portano avanti una battaglia infondata sul rispetto dello stato di diritto (cui l’Ue collega lo stanziamento di finanziamenti comunitari – ndr), ma poi reclamano fondi da Bruxelles dei quali sono peraltro tra i massimi beneficiari. I confinamenti della scorsa primavera e quelli attuali hanno portato novità sul lavoro: basti pensare allo smart-working. Tali novità resteranno in futuro?La mia impressione è che le attività economiche tradizionali, soprattutto l’industria, e su un piano differente i servizi alla persona, incluse le attività turistiche, i bar e i ristoranti, dovranno tornare alla consuetudine, perché non sono settori trasformabili in “virtuali”. Il grosso dell’economia quindi tornerà a lavorare in presenza. Questo non vale per le molte attività d’ufficio che si svolgono alla scrivania, con un computer: in questo caso già ora molte aziende si stanno attrezzando per mantenere il lavoro da casa. Questo potrebbe avvenire anche per una parte della Pubblica amministrazione, soprattutto per quegli uffici che non hanno un rapporto diretto con i cittadini. Resta però da fare una seria riflessione sulle condizioni di lavoro da casa: per farlo occorre essere provvisti dal datore di strumenti adeguati; e poi è necessario determinare un confine ragionevole tra lavoro e vita familiare, perché altrimenti si finisce per lavorare più di prima, con un carico psicologico non indifferente, e magari meno pagati con la scusa che non si deve lasciare la propria abitazione… Sarà necessario vigilare su tutti questi nuovi aspetti. Europa e Stati Uniti: cosa cambierà, a suo avviso, con l’elezione di Biden sul piano economico, ma anche politico?Speriamo che le cose cambino in meglio. Forse saranno mantenuti alcuni elementi di protezionismo, talvolta definibile come “positivo”, perché esiste un problema per l’Europa e per gli Usa di riportare indietro alcune produzioni che erano state delocalizzate con la perdita di posti di lavoro. Ci aspetteremmo però che l’Europa rifletta anche sul libero commercio internazionale dopo questa ubriacatura liberista. Da parte di Biden si può immaginare anche una maggiore collaborazione economica tra le due sponde dell’Atlantico. Sul versante politico è lecito attendere che la nuova amministrazione americana rilanci il multilateralismo, facendo funzionare meglio e in maniera più sostenibile e progressista le grandi organizzazioni politiche e finanziarie internazionali: le Nazioni Unite, il Fmi, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio, l’Organizzazione internazionale del lavoro. Rispetto alla politica sovranista di Trump dovrebbe arrivare anche una nuova fase nella politica estera e nella collocazione internazionale degli Usa, a vantaggio del partner europeo. Le sfide da affrontare insieme sono davvero molteplici, basti pensare a quella climatica e a quella digitale, che avranno ricadute notevoli sull’industria, sull’occupazione, sulla vita di ogni giorno: occorreranno riconversioni green e digital, che si sommeranno ai processi di ristrutturazione post Covid. Servirà una regia di “transizione giusta”, che pensi allo sviluppo, alla qualità del lavoro, ai diritti, insomma una progettazione globale del futuro che ci è imposta da questi tempi nuovi. Una regia che in Europa dovrebbe essere in capo alla Commissione europea e agli Stati nazionali, ma con decisivi apporti degli enti locali e delle parti sociali perché, infine, i processi si gestiscono spesso a livello territoriale. Basterebbe pensare all’esempio dell’Ilva di Taranto.