Italia

Rapporto Censis: dal rancore alla cattiveria, l’Italia in preda a un «sovranismo psichico»

«La delusione per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso ha incattivito gli italiani» che «si sono resi disponibili a compiere un salto rischioso e dall’esito incerto, un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto così vicino» proprio perché «la scommessa era poi quella di spiccare il volo». E questo anche a costo di «forzare gli equilibri politico-istituzionali e spezzare la continuità nella gestione delle finanze pubbliche», «quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite». È il 52° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, presentato oggi a Roma, a tracciare questa severa diagnosi.

Per il Censis si tratta di «una reazione pre-politica con profonde radici sociali che alimentano una sorta di sovranismo psichico» e che «talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria – dopo e oltre il rancore – diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare». Il Rapporto individua nell’«assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive», il «processo strutturale chiave» dell’attuale situazione. Non a caso «l’Italia è ormai il Paese dell’Unione europea con la più bassa quota di cittadini che affermano di aver raggiunto un condizione socio-economica migliore di quella dei genitori». Il 56,3% degli italiani dichiara che non è vero che «le cose nel nostro Paese hanno iniziato a cambiare veramente», il 63,6% è convinto che nessuno ne difenda gli interessi e che bisogna pensarci da soli. «L’insopportazione degli altri – rileva il Censis – sdogana i pregiudizi, anche quelli prima inconfessabili», e mentre si manifesta «un cattivismo diffuso che erige muri invisibili, ma spessi», «le diversità degli altri sono percepite come pericoli da cui difendersi». Il 52% (il 57% tra chi ha redditi bassi) è addirittura persuaso che si faccia di più per gli immigrati che per gli italiani. In generale, il giudizio negativo sull’immigrazione è nettamente superiore alla media europea. Rispetto al futuro, il 35,6% degli italiani è pessimista «perché scruta l’orizzonte con delusione e paura», il 31,3% è incerto e solo il 33,1% è ottimista.

«Siamo di fronte a una politica dell’annuncio. Ma la funzione politica, la responsabilità della classe dirigente, il ruolo dell’establishment stanno nel proporre una prospettiva nel futuro. L’annuncio, senza la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al progetto politico, da profetico si fa epigonale», afferma il 52° Rapporto annuale del Censis. «Andiamo da un’economia dei sistemi verso un ecosistema degli attori individuali, verso un appiattimento della società» in cui «ciascuno afferma un proprio paniere di diritti», sostiene il Censis, secondo cui «la società vive una crisi di spessore e di profondità: gli italiani sono incapsulati in un Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro». «Il sistema sociale, attraversato da tensioni, paure, rancore – afferma ancora il Rapporto – guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità, rompe l’empatia verso il progresso, teme le turbolenze della transizione. Il popolo si ricostituisce nell’idea di una nazione sovrana supponendo, con una interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell’ingiustizia e della disuguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale. I riferimenti alla società piatta come soluzione del rancore e alla nazione sovrana come garante di fronte a ogni ingiustizia sociale, hanno costruito il consenso elettorale e sono alla base del successo nei sondaggi politici in Italia come in tante altre democrazie».

Per il Censis, invece, «serve una responsabilità politica che non abbia paura della complessità, che non si perda in vicoli di rancore o in ruscelli di paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi».

«Oggi solo il 43% degli italiani pensa che l’appartenenza all’Ue abbia giovato all’Italia, contro una media europea del 68%: siamo all’ultimo posto in Europa, addirittura dietro la Grecia della troika e il Regno Unito della Brexit». Eppure – osserva il Censis – il nostro Paese deve molto, in termini economici, all’appartenenza all’Unione europea. Il Rapporto cita tre esempi: le esportazioni, il turismo e l’innovazione. Rispetto al 2010, nell’economia italiana «solo l’export è cresciuto (+26,2%)» e «le imprese esportatrici sono oggi 217.431 (8.431 in più rispetto al 2012)». Tutto ciò «si svolge per la gran parte dentro l’Europa (il 55,6% del valore dell’export)». Nel settore del turismo «su 90,6 milioni di viaggiatori stranieri entrati in Italia nel 2017, ben 63,3 milioni (il 69,9% del totale) provenivano da Paesi europei». Per quanto riguarda l’innovazione, a fronte di una riduzione della spesa pubblica per la ricerca (da 10 miliardi di euro nel 2008 si è passati a poco di più di 8,5 nel 2017), il Censis sottolinea che la nostra «unica chance» per poter competere «è una maggiore integrazione nei processi che si realizzano a livello comunitario» come Horizon 2020. Nel programma 2014-2020, l’Italia ha già ricevuto 2,8 miliardi ed è il quinto Paese per finanziamenti ricevuti. Il Rapporto osserva, inoltre, che «nei Paesi in cui è elevata la fiducia nell’Ue e contemporaneamente è positivo il giudizio sulla situazione del proprio Paese si è registrata una forte risalita post-crisi». Al contrario «nel gruppo di Paesi in cui la fiducia nell’Europa è bassa, anche il giudizio sulla situazione interna è negativo: tra questi figura l’Italia, insieme a Francia, Regno Unito, Spagna e Grecia».

Nel 2017 il 12,4% degli occupati nella classe di età 20-29 anni era a rischio povertà. Si tratta di circa 330mila persone, 10mila in più rispetto all’anno precedente. L’incidenza del rischio risulta più accentuata tra gli occupati che svolgono il lavoro in forma autonoma o indipendente (18,1%) rispetto ai dipendenti (11,2%). Fra i 15 e i 24 anni un giovane su quattro è a rischio povertà, condizione che si riduce nella classe d’età 25-34 anni e soprattutto oltre i 65 anni (17,1%). Nella fascia d’età 25-34 anni i sottoccupati sono circa 163mila (il 4% degli occupati), pari al 23,5% dei tutti i sottoccupati. Nella stessa classe d’età gli occupati in part-time «involontario» (cioè non scelto ma imposto per ragioni di riduzione dei costi) sono circa 675mila, vale a dire 16 su 100 giovani occupati. Più in generale, tra il 2000 e il 2017 in Italia il salario medio annuo è aumentato in termini reali solo dell’1,4%, pari a 400 euro annui, contro i 5.000 euro della Germania (+13,6%) e gli oltre 6.000 della Francia (+20,4%). Nello stesso arco di tempo gli occupati nella fascia 25-34 anni sono diminuiti del 27,3% (oltre un milione in mezzo in meno), quelli tra i 55 e i 64 anni sono aumentati del 72,8. Nel giro di un decennio si è passati da 236 a 99 giovani occupati ogni 100 anziani.

Il Rapporto mette in evidenza anche «segnali di allargamento della forbice sociale nei bilanci delle famiglie». Negli ultimi cinque anni, infatti, «la capacità di spesa delle famiglie italiane ha mostrato un progresso». Ma mentre la quota che dichiara un incremento rispetto all’anno precedente ha raggiunto il 31,9% del totale, c’è un 15% che ha visto ridurre la propria capacità di spesa.