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L’Iraq e il «bubbone» dell’Isis è il momento che l’Onu agisca

Di fronte all'avanza dei fanatici dell'Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante)e alle persecuzioni contro tutte le minoranze religiose, l'Occidente è apparso diviso e incapace di una linea politica chiara. Alla fine gli americani hanno fatto quello che sanno fare meglio in questi casi: bombardare.

In poco più di un mese i fanatici dell’ISIS (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) si sono dati un territorio e un esercito. Hanno conquistato una regione grande poco meno della Svizzera, fra la città di Mosul in Iraq e la città di Raqqa in Siria. Possiedono ora non solo i soliti pick-up (i fuoristrada usati in tutte le guerriglie di movimento), ma anche blindati e mezzi di artiglieria abbandonati dall’esercito iracheno in rotta. Nel territorio occupato hanno sequestrato i lingotti e i capitali delle banche per centinaia di milioni di dollari, vendono di contrabbando il petrolio della zona siriana e impongono una tassa ai commercianti. Con questi mezzi hanno gonfiato un esercito che ormai conta su molte decine di migliaia di arruolati (qualcuno dice addirittura centomila) a cui si sono aggiunti circa 12 mila volontari giunti dall’estero e che può essere equipaggiato e pagato meglio dell’esercito governativo iracheno.

Come può essere accaduto che questo esercito iracheno che in teoria dovrebbe potere contare su 270 mila uomini sia stato sconfitto da dei ribelli, che all’inizio  del luglio scorso non sembra che superassero i diecimila uomini, si spiega solo con l’improvvisazione di un esercito raffazzonato e demotivato, senza una tradizione militare alle spalle dopo lo scioglimento del vecchio esercito di Saddam Hussein e soprattutto con la più che dubbia dubbia lealtà  dei soldati di fede sunnita che incrinano questa grande armata Brancaleone.

L’estremismo dell’ISIS può essere considerato infatti anche come la fase acuta  della guerra civile fra sunniti e sciiti a base di attentati e di rappresaglie di massa che ha insanguinato l’Iraq nel 2006 e nel 2007 e che non è mai stata ufficialmente chiusa, anche per la faziosità dei governi che si sono succeduti e possono contare solo avuto sul sostegno della popolazione sciita. E non c’è dubbio che il successo dell’ISIS è dovuto soprattutto all’appoggio più o meno aperto che ottiene, in genere, dalla popolazione sunnita dell’Iraq.

Nel corso della sua avanzata, all’inizio facile come il coltello che entra nel burro, l’ISIS, come è tristemente noto, si è scatenata contro le varie minoranze religiose che incontrava. Intorno al 10 giugno ci sono state a Mosul 670 esecuzioni fra i cristiani costretti in massa alla fuga verso il Kurdistan. Il 15 agosto a Kocho, un villaggio nel nord dell’Iraq, sono stati trucidati duemila uomini yazidi (seguaci di una religione a metà fra l’islamismo e la gnosi cristiana) e fra l’11 e il 12 luglio scorso, secondo una denuncia dell’Unicef di pochi giorni orsono, sarebbero stati messi al muro nel nord dell’Iraq settecento turcomanni (musulmani ma di etnia turca).

Di fronte a questa minaccia il presidente Obama ha dato l’ordine di fare la cosa che gli americani al solito sanno fare meglio e cioè bombardare. In questo caso le posizioni dell’ISIS. Muovendosi invece in ordine sparso altri paesi (Francia, Gran Bretagna, Danimarca, Canada, Croazia, Albania, oltre all’Italia) hanno deciso di rifornire di armi i curdi con una decisione che è inedita perché il rifornimento di armi ad una parte in lotta, se è stato praticato ampiamente e segretamente in passato, quasi mai è stato proclamato ufficialmente. E, forse proprio per questo, il gesto si presenta, oltre che una come una decisione da cui ci si aspetta qualche risultato, soprattutto come una mossa pubblicitaria per far sapere alla mano sinistra cosa fa la mano destra e per dire al resto del mondo: vedete, noi abbiamo già dato. Tuttavia i curdi, che vedono ormai le forze dell’ISIS a quasi trenta chilometri dalla loro capitale Erbil, sembrano gli unici capaci, se non altro per ragioni di sopravvivenza, di opporsi direttamente all’ISIS.

Tuttavia né i bombardamenti americani né l’azione di una popolazione guerriera come i curdi finora rimasta indenne nel grande marasma iracheno sembrano capaci di fare retrocedere le forze del «neocaliffo» Abu Bakr al Bagdad. Al contrario l’ISIS, anche se rallenta la sua avanzata, si dimostra capace di colpire al cuore anche il Kurdistan, come è accaduto con l’attentato suicida che il 15 agosto ha fatto 21 morti nella grande città di Kirkuk.Nessuno sa per il momento come affrontare un caos sempre più barbaro che minaccia fra l’altro di estendersi a tutto il Medio Oriente e di trasformarsi in una grande battaglia fra sunniti e sciiti con alla fine l’Iran che, come stato guida di questi ultimi, potrebbe scendere in campo ed essere il vero antagonista del fanatismo di marca sunnita che ormai lambisce i suoi confini.

Ma dal lato del contrasto dell’ISIS in Siria non si riesce per il momento a inventare nemmeno un copia e incolla dei curdi e il presidente Obama ha dovuto naturalmente rifiutare l’offerta di combattere l’ISIS insieme al dittatore Assad perché nemmeno per combattere il diavolo ci si può alleare con un uomo responsabile di una guerra che ormai ha fatto quasi duecentomila morti.

D’altro lato le stragi dell’ISIS hanno rinfocolato a destra la polemica sommaria contro l’islam ritenuto in genere come una sorta di religione del crimine, riesumando per l’occasione le polemiche fortunate della solita Oriana Fallaci. Ma quello che sta succedendo in questi giorni in Iraq e in Siria non è né l’applicazione dell’Islam classico al presente né la sua continuazione storica, ma semmai una rottura traumatica della sua tradizione anche nel rapporto con le altre religioni. Nonostante intervalli di scontri e di persecuzioni l’Islam storico, anche nel periodo delle sue conquiste più strepitose e trionfali, ha sempre cercato e spesso anche imposto una convivenza con le altre religioni sottomesse, seppure in condizioni più o meno nette di inferiorità, senza mettere coloro che non credono in Allah nell’alternativa secca fra il cambiare la propria testa o perdere la propria testa.

Lo dimostra la stessa sopravvivenza delle minoranze o delle maggioranze cristiane durante tredici secoli dall’Iraq alla Palestrina fino, per non andare molto lontano, alla Spagna o addirittura alla Sicilia. Come ha ricordato al Meeting di Rimini padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terrasanta, proprio la storia del Medioriente fino a tempi recenti è quella della convivenza delle grandi religioni e delle grandi culture senza nemmeno tentare l’assimilazione dell’altro tipica del mondo occidentale.Né per ristabilire oggi questo rispetto reciproco serve a molto come, ha fatto Giuliano Ferrara su «Il foglio», rimpiangere il tempo in cui le grandi potenze europee, magari con la minaccia delle proprie cannoniere, si facevano protettrici dei propri cristiani dentro l’Impero Ottomano: la Francia per i cattolici, l’Inghilterra per i protestanti, la Russia per gli ortodossi. A parte il fatto che, in una Europa sempre più scristianizzata e in un Medioriente sempre più frantumato, non si saprebbe più chi dovrebbe proteggere chi da chi, si dimentica che oggi la nuova minaccia non riguarda più solo i cristiani, ma tutte le minoranze etniche o religiose che ora, solo a mo’ d’esempio, possono essere gli yazidi o i turcomanni, ma che domani possono essere addirittura i musulmani sciiti. Lo stesso fraintendimento si ha anche nel mondo cristiano quando, invocando la preghiera o addirittura la vittoria della Croce come unica risposta di fronte alle stragi, non ci si accorge di dare una riposta alta e finanche teologicamente fondata, ma purtuttavia sempre confessionale. In effetti, di fronte ad una realtà in cui ci si sente in diritto di minacciare di morte uno straniero qualora non si paghi un riscatto, dando per scontato che ogni straniero, solo in quanto tale, non ha diritto alla vita, non si attenta solo alla libertà religiosa, ma ai diritti umani fondamentali. In questo caso anche l’accusa di «genocidio» è attenuata solo dal fatto, ammesso che cosi si possa dire, che per ora si tratta di un genocidio applicato ad un uomo o a piccoli numeri di uomini.Ora proprio in questi giorni da più parti è stato ricordato che venti anni fa, quasi alla fine di quell’anno terribile in cui, per la latitanza dei soldati dell’Onu che, di fronte ai massacri, se ne andavano o guardavano dall’altra parte, erano ancora vicine le tragedie vergognose di Sebrenica o del Rwanda, papa Giovanni Paolo II disse, nel suo discorso alla Fao: «Sia reso obbligatorio l’intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli e di interi gruppi etnici».

Anche per questo richiamo, alla fine, il segretario Kofi Annan, il 16 settembre 2005, fece approvare dall’Assemblea dell’Onu la possibilità di un intervento dell’Onu «qualora le autorità nazionali non assumano manifestamente la protezione delle loro popolazioni contro il genocidio, i crimini di guerra, la pulizia etnica e i crimini contro l’umanità». E l’intervento dell’Onu può significare intervento militare a protezione delle popolazioni, ma anche altre alternative come sanzioni, giustizia internazionale, forze di interposizione o corridoi umanitari. Certo, anche fare muovere l’Onu non è facile. Ma almeno si abbia il coraggio di chiederlo. Anche se non ci salvassimo per i risultati avremo comunque delle attenuanti a motivo delle nostre intenzioni.