Italia
Rignano Garganico, un ghetto dove si lavora per 20 euro al giorno
Si continua a morire nei campi del Sud Italia. Braccianti italiani e (soprattutto) stranieri, costretti a stare per ore e ore sotto un sole cocente per una misera paga. Quattro di loro, in quaranta giorni, non ce l’hanno fatta e si sono accasciati a terra. Morti. L’ultimo, in ordine di tempo, un africano del Mali, trentenne, deceduto due settimane fa nelle campagne di Rignano Garganico: il suo cadavere – stando alla denuncia fatta da Yvan Sagnet, responsabile del Dipartimento immigrazione della Flai-Cgil Puglia – sarebbe stato occultato dai «caporali». A luglio, in un campo di pomodori tra Nardò (Lecce) e Avetrana (Taranto), mentre il termometro segnava 42°, ha perso la vita Abdullah Mohamed, 47enne di origine sudanese. Stesso destino, nel giro di pochi giorni, per Paola Clemente, 49 anni, bracciante ad Andria, e Zakaria Ben Hassine, 52enne tunisino morto in un’azienda di Poli¬gnano a Mare. Mentre è ancora in coma Arcangelo De Marco, 42 anni, accasciatosi al suolo nelle campagne di Metaponto l’8 agosto.
Il progetto «Presidio» della Caritas. A fianco dei braccianti sfruttati nei campi è attiva Caritas italiana, con la collaborazione territoriale di 10 Caritas diocesane, che ha in corso il progetto «Presidio» finanziato dalla Cei. Obiettivo dell’iniziativa è «garantire una presenza costante su quei territori che vivono stagionalmente l’arrivo di lavoratori attraverso un presidio di operatori Caritas pronti a offrire, oltre a un’assistenza per i bisogni più immediati, anche un’assistenza legale e sanitaria e un aiuto per i documenti di soggiorno e di lavoro». Tra le Caritas aderenti al progetto vi è quella della diocesi di Foggia-Bovino, diretta da don Francesco Catalano, che da tempo svolge la sua azione di sostegno tra i lavoratori stagionali che stazionano nel «ghetto» di Rignano Garganico, in pieno territorio della «Capitanata», dove si svolge annualmente la raccolta dei pomodori.
La vita nella baraccopoli. Stiamo parlando di una vera e propria baraccopoli – su un terreno privato occupato abusivamente – di lamiere, legno, plastica e cartone, senza elettricità, né acqua corrente, né rete fognaria. Nelle baracche, prive di tutto, sono solo i materassi ammassati per terra a individuare le postazioni degli occupanti. Insomma, condizioni di vita inumane. Lì, nei mesi invernali, trovano rifugio circa 300 persone, impiegate nell’agricoltura di stagione, ma nei mesi estivi gli abitanti del «ghetto» arrivano a superare le 2.000 unità che, da varie parti, giungono per la raccolta dei pomodori. Quasi tutti sono africani, provenienti prevalentemente dai Paesi dell’area sub-sahariana. Un villaggio «infernale» che – paradossalmente – ha anche sviluppato una sua organizzazione interna, con «bar e ristorante» (si fa per dire), vendita di schede telefoniche e offerta di prostituzione in loco. E naturalmente un consolidato «sistema lavoro», le cui rigide regole devono essere rispettate da tutti quelli che vogliono lavorare nei campi.
Il controllo dei «capi neri». «Il sistema è controllato dai cosiddetti capi neri – racconta don Francesco Catalano -, persone africane che sono qui già da tempo e conoscono i proprietari dei campi. Sono loro a reclutare la squadra. È con loro che devi parlare se vuoi lavorare». Così, alle prime luci dell’alba, i braccianti attendono il loro arrivo di fronte alle baracche per essere arruolati e accompagnati al lavoro, fino al tramonto. Una cassa di pomodoro da 500 chili vale 5 euro, 1 euro e 50 è per i capi neri, il resto rimane al lavoratore. Per riempirne una ci vuole circa un’ora. Dieci casse sono trentacinque euro, per dieci ore di lavoro. Ma non restano tutti in tasca al bracciante: per andare e tornare dai campi il capo nero vuole 5 euro e alla fine della giornata si fa ritorno al ghetto con poco più di 20 euro in tasca. Mentre i capi neri guadagnano dieci volte tanto. «Anche per questo – aggiunge don Francesco -, oltre ai servizi di orientamento legale e di sostegno all’emersione dall’illegalità, la Caritas ha allestito per chi lo desidera un servizio di ciclo-officina, fornendo delle biciclette per recarsi al lavoro senza dover spendere altri soldi». Eppure questo sistema degradante – ai limiti dello «schiavismo» – ha raggiunto un sorta di «equilibrio» interno. L’equilibrio della disperazione di chi cerca un guadagno pur minimo per sopravvivere.