Italia
Cattolici e politica, mons. Simoni: «Uscire dalla frammentazione»
Il lavoro sarà al centro di un documento che verrà approvato al termine dell’assemblea nazionale del Collegamento Sociale Cristiano. Per parlare di questo ma anche della crisi economica e dell’attuale situazione politica abbiamo intervistato mons. Gastone Simoni, vescovo emerito di Prato e fondatore dello stesso Csc.
Com’è che siamo arrivati a questa drammatica crisi del lavoro e della società?
«Difficile sintetizzare in poche parole la risposta a tale domanda, anche perché non sono un esperto di economia. Posso affermare però, credo giustamente, che questa drammatica crisi è frutto di un intreccio di cause internazionali e locali. Intanto, mi pare ineccepibile la diagnosi di alcuni esperti di economia e politica nonché di dottrina sociale della Chiesa. Cito volentieri alcune espressioni del professor Luigino Bruni pronunciate alla recente Tre giorni sociale dei cattolici toscani a Pistoia. Bruni ha affermato che “un sistema economico e una civiltà iniziano la loro decadenza quando il nesso tra capitali e frutti si inverte e lo scopo dei capitali diventano i capitali”. Cioè, invece di servire al lavoro e quindi all’espansione economica generale, i capitali sono impiegati per accumularne altri senza preoccupazioni per il bene comune. Cito ancora: la grande crisi avviene “quando i redditi sono visti in funzione dei capitali e i profitti e i salari in funzione delle rendite. Così gli imprenditori si trasformano in speculatori…”. È quel che succede nell’economia e nella società contemporanea, dove “il centro della dialettica sociale non è più il conflitto imprenditori-lavoratori, ma quello tra rendite e tutto il mondo del lavoro, imprenditori compresi”. E ancora: “Oggi il grande capitale è in mano a finanzieri e speculatori che dominano non solo la finanza ma l’intera economia, incluso il mondo dell’impresa”. Insomma, l’attuale crisi epocale va inquadrata nel tragico terremoto prodotto negli ultimi anni dalla prepotenza antidemocratica della finanza speculativa, spregiudicata e truffaldina che finisce per soffocare l’economia reale. Esagerata questa diagnosi? Da lettore delle encicliche sociali direi di no».
Un’analisi delle cause più locali della crisi quale può essere?
«Solo alcune battute, senza pretese. Sulla crisi del lavoro in Italia hanno contato diversi fattori. Mi riferisco intanto alla crisi particolare del settore manifatturiero, avvenuta, secondo me, anche per la liberalizzazione incontrollata degli scambi internazionali che ha favorito nel mercato globale la concorrenza, spesso sleale, dei centri di produzione e di commercio operanti a costi assai inferiori a quelli delle nostre imprese. Sul piano dell’edilizia, poi, le attuali difficoltà sono dovute anche alla bolla speculativa che ha concorso non a favorire ma a fermare il lavoro nel settore e la vendita di case. Aggiungerei inoltre il peso negativo dell’eccesso di burocrazia che ha scoraggiato molti interventi esteri nel nostro paese: il che, oltre alle tempestose vicende politiche nostrane, ha intaccato la credibilità dell’Italia a livello internazionale. Direi anche che, in una condizione resa così debole da cause internazionali e locali, l’immenso debito pubblico accumulato nel passato ha reso tutto più difficile ai fini della ripresa. Di qui il rigore, più o meno giusto o opportuno, nel controllo della spesa e il freno alle opere pubbliche necessarie per incrementare il lavoro. Collegato infine con la predominanza della finanza speculativa, è stato e resta deleterio il fatto che i profitti sono stati e restano indirizzati più alla rendita che agli investimenti produttivi. Si potrebbe aggiungere, infine, che difficoltà sono venute non di rado dai difficili rapporti, ai fini di trovare le vie per gli investimenti produttivi, tra gli amministratori statali e locali e i loro funzionari. Ripeto, sono soltanto dei cenni, che esigerebbero più lunghe spiegazioni e integrazioni».
La crisi ha investito anche la famiglia stessa e mette in dubbio il futuro dei giovani…
«È ovvio. Si potrà anche dire che oggi nel mondo della disoccupazione generale e in particolare giovanile i lamenti, pure assai motivati, prevalgono sull’intraprendenza e la disponibilità ad accettare lavori diversi da quelli desiderati. Però anche questo dato va compreso tenendo conto dello scoraggiamento che deriva da una così grave e deprimente situazione globale e locale. Sono state importanti e lodevolissime alcune esperienze di intraprendenza lavorativa di adulti e di giovani e di iniziative privato-sociali a ciò finalizzate: si deve auspicare che si moltiplichino, ma esse sono insufficienti da sole a invertire la rotta. Di qui l’urgenza che a livello politico mondiale, europeo e nazionale si verifichino subito decisioni e atti concreti che diano motivi seri di fiducia, se non si vuole l’aumento della depressione e del pericolosissimo disagio sociale. La stessa creatività, ammirabile e diffusa, messa in atto da vari soggetti sociali e particolarmente ecclesiali è una provvidenziale benedizione a motivo della concretezza degli interventi e dello spirito che le anima, ma non è la soluzione. Magari a livello politico ed economico fosse più diffuso quello spirito!».
E allora da dove ripartire per invertire la tendenza negativa?
«Gli esperti parlano dell’urgenza di mettere in atto incentivi per la formazione e il lavoro, la flessibilità delle imprese, patti di solidarietà degli occupati verso i disoccupati. Ma credo che se non è trainante la politica – senz’altro stimolata da un movimento di intraprendenza e di fiducia nella cosiddetta società civile – anche una più larga mobilitazione socioeconomica di base non sarà sufficiente. Questo esige che la politica abbia un minimo di unità ed eviti un’eccessiva dialettica conflittuale. Chi è cristiano, pur senza rinunciare alle proprie valutazioni e proposte, non può che lavorare per un grado maggiore di pace sociale e politica. Al tempo stesso noi cattolici – e lo dobbiamo fare meglio e di più – indichiamo come linee direttrici, capaci di favorire un rinnovamento generale e una svolta risolutiva, le tesi insegnate dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI integrate da quelle della Centesimus annus di Giovanni Paolo II. C’è continuità e mutuo arricchimento tra i due testi pontifici, che hanno indicato come protagonisti di una società più libera e giusta e di un lavoro più sicuro per tutti tre grandi soggetti sociali e politici. Quali? L’ordine con cui accenno ad essi non vuol dire che il primo sia più importante e l’ultimo meno. Questi i grandi protagonisti auspicati dal pensiero sociale cattolico. Intanto va messa in rilievo l’economia cosiddetta civile, quella che con l’efficienza dell’impresa e la produzione del profitto coniuga in maniera strutturale la condivisione solidale dei mezzi e dei frutti del lavoro. È un’economia che ha bisogno di essere incentivata dalla cultura corrente e favorita da una legislazione che non preveda solo il mercato e lo Stato. Al tempo stesso, protagonisti essenziali sono lo Stato e le Istituzioni, che hanno il compito di indicare autorevolmente gli obiettivi del bene comune, di legiferare in merito, di controllare, e anche di intervenire con investimenti pubblici produttivi che non mortifichino ma stimolino l’iniziativa privata. D’altra parte resta del tutto naturale e necessario il sistema dell’economia di mercato che coniuga libertà e solidarietà nel quadro del bene comune assicurato dalle Istituzioni. Si tratta di rimettere in auge l’economia sociale di mercato: l’aggettivo non è superfluo. Insomma, alla cooperazione dei tre grandi protagonisti è affidata non solo la ripresa economica e lavorativa ma anche, più in profondo, la salvaguardia e lo sviluppo umanistico ed etico della nostra civiltà. La crisi attuale non è solo crisi del lavoro, ma crisi e sconfitta sia del liberismo capitalistico antidemocratico che dell’antidemocratico statalismo più o meno marxista».
Noto che mette sempre in risalto il ruolo della politica. Quale può essere in questo campo il contributo dei cattolici?
«Il contributo fondamentale è quello di “esserci”: essere presenti motivatamente non solo nella società civile ma anche nelle istituzioni e quindi nella politica. “Esserci” vuol dire prima di tutto interessarsene, arrivare al voto con cognizione di causa per quanto è possibile, e al tempo stesso entrare nell’azione politica vera e propria, almeno da parte di coloro che si sentono particolarmente chiamati da una spinta interiore o dalla comunità. Sono note le esortazioni in tal senso mille volte ripetute dal magistero sociale della Chiesa nonché da recenti interventi pontifici ed episcopali. Anche Papa Francesco ha esortato a questo impegno. Purtroppo è un fatto che riguardo alla politica e alle sue vicende la maggior parte dei cattolici non è preparata a valutare e a decidere in vera coerenza col Vangelo, con l’intero magistero sociale della Chiesa e con le esigenze morali ispirate al culto dell’onestà, della giustizia e della carità solidale. Non si chiede a tutti i cattolici di essere degli esperti e dei competenti a tutto campo; si chiede loro di avere una mentalità più evangelica anche in questo settore, di conoscere al meglio il magistero sociale, di informarsi sulle vicende sociali e politiche anche attingendo alle fonti di ispirazione cristiana, e di nutrire comunque un continuo interesse morale per il bene comune. Ma, a tal fine, quanto devono tentare e “osare” di più, sul piano educativo, le nostre concrete comunità ecclesiali? È necessario dare un contributo per far circolare nell’opinione pubblica le idee e le valutazioni della dottrina sociale della Chiesa. È necessario dare tutti quanti testimonianza di virtù private e pubbliche, di onestà, di senso della giustizia, di passione per la liberazione dei poveri tra noi e nel mondo, di passione per difendere non due o tre ma tutti i beni essenziali per il bene comune (per questo vedere la relazione del prof. Baggio alla Tre giorni di Pistoia allorché tratta dei cosiddetti valori non negoziabili). Da parte di coloro che sono più impegnati in politica è d’obbligo coniugare la competenza, la dirittura morale e l’effettivo distacco dalla passionalità fanatica, dal potere cercato e tenuto a tutti i costi e dall’attaccamento ai soldi. Ma è assai difficile tutto questo senza profonda ispirazione evangelica-messianica e coltivazione della vita interiore e virtuosa, che è il “primum necessarium”. È necessario, infine, uscire dalla frantumazione della nostra presenza pubblica attuando, nel rispetto reciproco e con un grado in più di fraternità, un raccordo permanente fra quanti sono più interessati, impegnati e attivi a livello sociale e politico. È vero che la decisione politica è del tutto personale, ma è altrettanto vero che trattandosi di una decisione così importante per il bene comune, essa sarà tanto più sapiente quanto più maturata nel dialogo anzitutto tra cristiani».
Dunque cosa fare, in pratica?
«Prima di tutto incrementare i momenti e le iniziative di formazione alla vita sociale e politica puntando a farne vedere i fondamenti evangelici e dottrinali, a far conoscere seriamente lo “specifico” delle attività socio-politiche e ad assicurare una solida e matura coscienza morale e un’altrettanto sicura spiritualità cristiana. In secondo luogo si tratta di favorire e moltiplicare incontri, raccordi, cooperazioni tra i laici più attivamente impegnati su questi versanti, in modo da rendere più effettivo e incisivo l’articolato ma pur sempre unitario movimento cattolico nella società (unitario, ovvio, se si fonda sull’accoglienza di tutto il magistero sociale). Da parte mia vorrei favorire anche la reciproca (e per ora difficile) attenzione e collaborazione tra cattolici e cristiani non cattolici. Il dialogo e la collaborazione con tutte le persone oneste e pensose sarebbe più efficace se ci fosse questa base di ricercato confronto tra cristiani. In terzo luogo – senza pretendere di superare la legittima pluralità delle opzioni pratiche e delle scelte elettorali e partitiche (cosa impossibile) – bisogna operare con paziente insistenza per collegare, appunto, quanti sono più addentro alle vicende politiche e per favorire tra di loro sia la verifica del loro pensiero e della loro azione con tutti i valori della dottrina sociale della Chiesa sia il massimo di una fruttuosa cooperazione».
Secondo lei, ci dovrebbe essere nel panorama politico italiano un partito che si richiamasse esplicitamente all’ispirazione cristiana?
«Questa è una tesi a me cara: non farebbe male, ma gioverebbe alla legittima pluralità politica, l’esistenza di un gruppo politico pur piccolo che fosse impegnato a operare ispirandosi effettivamente ed esplicitamente all’intera visione cristiana dell’uomo e della società non richiamata genericamente ma considerata il fondamento del proprio programma. Questa, secondo me, non è un’operazione sanfedista o integralista o antipluralista, ma rappresenta invece un libero e democratico contributo all’integrale servizio del bene comune. Lo so che, oltre tutto, ci sono questioni di legge elettorale in proposito e che il sistema bipolare italiano è “stretto” per l’effettiva libertà di tutti; ma non vedo perché non dovrebbero “osare” al riguardo quegli uomini e quelle donne che avessero idee chiare e coraggio (anche il coraggio di andare controcorrente in una società fortemente condizionata da varie forme di laicismo). Ho rammentato la parola “osare”, esplicitamente ricordata dal card. Betori a Pistoia, senza per questo volerlo tirare dalla mia parte: “osare”, oggi, è una grande parola. Aggiungo infine, a costo di essere considerato “l’ultimo democristiano”, che sarebbe una grave perdita per la cultura e la vita pubblica italiana ed europea, e non solo, e per il concreto servizio al bene comune globale, non tanto e non soprattutto l’assenza di un partito politico a denominazione DC o simile, quanto l’ininfluenza e l’oscuramento di quella che mi ostino a chiamare “la cultura democristiana”, la quale deriva dalla coniugazione virtuosa e feconda tra la visione cristiana dell’uomo e della società e la democrazia dello “stato di diritto”, della libertà e della solidarietà».