Italia

Mario Sberna: «Vivere da parlamentari con 2500 euro? Si può»

Mario Sberna, deputato di Scelta Civica con Monti per l’Italia, abita a Brescia, al numero civico 1 di una via che si chiama «Quartiere la Famiglia». In quella casa vivono anche la moglie  Egle, con cui l’onorevole è sposato ininterrottamente da ventotto anni e cinque figli. Una famiglia large, dunque, quella di Mario Sberna, nei giorni scorsi a Pisa per partecipare ad un incontro promosso dall’Udc. Dell’Associazione nazionale famiglie numerose è stato fondatore e presidente fino alla sua scelta – sofferta, ricordano gli amici – di candidarsi in Parlamento.

«Da presidente delle Famiglie numerose – racconta a Toscana Oggi l’onorevole Sberna – mi ero recato a Roma, a mie spese, 147 volte, per bussare alla porta di ministeri e partiti politici. E rivendicare i diritti delle famiglie con più figli per le quali lo Stato (così dice l’articolo 31 della Costituzione) dovrebbe avere una attenzione speciale (e qui ci scappa una risatina sarcastica, ndr). Adesso ci ho messo un piede dentro».

Economo del seminario della sua diocesi, laureato in Scienze religiose all’ateneo cattolico della sua città. Chi immagina Mario Sberna il classico cattolico acqua e sapone – le cui guance, di fronte a questa presentazione, assumono i sette colori dell’arcobaleno – si sbaglia di grosso. Quell’uomo è un sanguigno. E sarà divertente seguirlo nei prossimi mesi.

Intanto ha già fatto parlare di sé. Per la scelta di presentarsi in parlamento con i sandali («che male c’era? Eravamo in Quaresima ed io in Quaresima faccio sempre questo fioretto»). Di rinunciare a buona parte del suo stipendio, trattenendo per sé ciò che percepiva prima di entrare in politica. Per l’insistenza con cui, un giorno sì e l’altro pure, ha chiesto al neo presidente del consiglio, il pisano Enrico Letta, che egli assegnasse ad un ministro o sottosegretario la delega per gli affari della famiglia. Osserva qualche politologo: questa scelta potrebbe favorire una «rivoluzione dal basso». Vedremo.

Facciamo due conti: quanto guadagnava prima di entrare in Parlamento?

«Duemilacinquecento euro, detrazioni e assegni familiari compresi, derivanti da due part-time, cioè dal mio servizio nella diocesi di Brescia e in una cooperativa sociale. Sono gli stessi soldi che ho trattenuto per la mia famiglia dopo l’arrivo delle prime buste paga. Per noi è una cifra più che sufficiente per vivere dignitosamente. In tanti fanno con molto meno».

Perché?

«Quando gli amici mi hanno quasi forzato a candidarmi, con Egle ed i ragazzi ci siamo seduti intorno ad un tavolo. Alla fine ho detto: “ok, provo ad andare a Roma. Ma non intendo prendere un euro in più rispetto a quello che è il mio attuale stipendio”. E per un motivo ben preciso: non ho nessuna intenzione di perdere il contatto con il mondo reale. Ho tanti conoscenti, so cosa significa avere un conto in banca sempre al limite del rosso. Ma se avessi cominciato a trattenere per me di più, molto di più, avrei fatto presto a dimenticarmi le fatiche di una famiglia normale. E allora sarebbe venuta meno la mia idea di vivere la politica come servizio. L’ho scritto sul mio blog. L’ho fatto. Allegando i pdf dei bonifici che avevo deciso di destinare in beneficenza».

Nessuna tentazione quando è arrivato il primo stipendio?

«Eccome. Il denaro è tentazione. Ho la responsabilità di cinque figli. La cucina di casa porta i segni di trent’anni di storia. Sogno da ragazzino una Davidson. In casa abbiamo passato in rassegna tutti gli acquisti fino ad oggi giudicati inaccessibili. Poi ci siamo messi a ridere. Sì, è dura, ma abbiamo resistito. Ci siamo detti: c’è chi sta molto peggio di noi».

È vero che si è messo in tasca anche un centinaio di monetine da due euro, per darle ai senza fissa dimora che incontra nella capitale?

«Ogni giorno che vivo a Roma, recandomi o tornando dal Parlamento, incontro una impressionante fila di mendicanti sul marciapiede. Diversi si affacciano anche ai punti di ristoro della stazione Termini, pronti a grufolare tra gli scarti di alimenti non consumati. Finora non ho avuto la prontezza di invitarli a prendere un panino con me. Dare a cento di loro due euro significa almeno riconoscer loro la dignità di uomini».

Una deputata del Movimento 5 Stelle, Patrizia Terzoni, mettendo in dubbio la sua scelta francescana, ha osservato: «Difficile vivere a Roma da parlamentare con 2.500 euro al mese». Lei come fa?

«Con Patrizia Terzoni ho chiarito: adesso quando mi avvicino a lei mi fa un bel sorriso… Comunque: le spese di vitto e alloggio, previste da una apposita voce (anche quelle documentate sul mio sito) sono… a piè di lista. Lo stesso accadeva in passato: quando il mio datore di lavoro mi ‘spediva’ in trasferta, mi pagava le spese. E però, c’è modo e modo di usufruire della diaria. Sono ospite dalle suore Pie Operaie a Roma. È una congregazione che ha la casa madre a Brescia, la mia città. Sono amiche. Volevano ospitarmi gratis, io ho insistito per 18/20 euro al giorno. Mi sembrava corretto: non navigano in buone acque nemmeno loro. Pranzo, se pranzo, rarissimamente alla Camera, più frequentemente al “Ciao” in via del Corso o in una pizzeria al taglio vicino al Pantheon e me la cavo in tutti i tre casi con 6/7 euro. Ceno dalle suore. Non ho spese di taxi, mi muovo solo a piedi, anche se piove. E quando vengo chiamato a giro per l’Italia ho la tessera ferroviaria del parlamentare. Ma rinuncio alla prima classe, mi rifugio in seconda».

Perché ha deciso di rendere pubblica questa scelta?

«Ho pensato: forse questa mia scelta può essere di esempio … e poi mi sembrava giusto rendicontare ciò che avevo promesso in campagna elettorale. Ne è venuto fuori un caso: mi hanno dedicato un servizio persino su un quotidiano olandese. D’ora in poi i curiosi si guardino il mio sito, nessun comunicato stampa su questo argomento».

Come l’hanno presa i suoi colleghi?

«C’è un collega che mi è venuto incontro, mi ha abbracciato e quasi piangendo mi ha detto: “io con il mio lavoro prima di entrare in parlamento portavo a casa ottomila euro. Non ce la faccio a fare con meno”. Nessuno glielo chiede. Se lo stile di vita della sua famiglia si regge con ottomila euro, non è giusto che, da deputato, lui ed i suoi stiano peggio. Il principio che sta alla base della mia scelta è: la politica è un lavoro, anche faticoso se fatto seriamente. Ma non deve farti cambiare il ceto sociale a cui appartenevi prima di diventare deputato o senatore».

E i cittadini?

«Dopo che ho reso pubblica la mia scelta, il mio indirizzo di posta elettronica è stato raggiunto da decine di richieste di aiuto. Siamo a 150. Un po’ alla volta cercherò di smaltirle. Certo (ride) se qualche collega volesse aiutarmi, sarebbe tutto più semplice…».

Serve più famiglia anche nel Governo e in Parlamento

«Osservo, studio, prego. E allora spero». Così Mario Sberna intervistato dal Corriere.tv pochi giorni dopo l’insediamento. «Non chiamatemi onorevole – chiese allora al collega – per “diventarlo” occorre, prima, aver fatto qualcosa di onorato. E fino ad oggi non ci sono riuscito». Lei ha detto: «Dopo il discorso di insediamento di Enrico Letta alle Camere, dal suo riferimento al dramma della denatalità, alla famiglia come unico welfare in tempo di crisi, mi aspettavo che il ministro della famiglia fosse scelto ancora prima di quello dell’economia». Chiarito con il presidente del consiglio? «Dopo giorni e giorni le deleghe sono state assegnate. Ma sembra che non avremo più un interlocutore unico, come in passato. Un vero peccato».

Lei ha chiesto ed ottenuto dal gruppo parlamentare a cui appartiene di entrare a far parte della commissione finanze della Camera. Perché?

«Volevano assegnarmi agli affari sociali, dove si discute del sesso degli angeli e non ha potere di decidere nemmeno di un centesimo…»

Qual è la sua idea di famiglia?

«Quella prevista dalla Costituzione: formata, cioè, da un uomo e una donna che si uniscono in matrimonio e sono aperti alla vita. Forme diverse di relazione affettiva sono altra cosa».

Non tutti la pensano così…

«L’ho notato. Ed ho anche notato un certo imbarazzo dei cattolici del Pd a fare dichiarazioni che suonano come non politically correct. Glielo dico perché ho provato a lanciare l’idea di un intergruppo parlamentare dall’esplicito titolo di “Familiaris consortio”. Niente. Allora ho detto agli amici parlamentari cattolici: almeno chiamiamolo “Famiglia e costituzione”. Ma anche quell’idea ha trovato ostacoli. Mi han detto: esiste già un gruppo sulla sussidiarietà… Insomma, la parola famiglia fa paura. Ma è ridicolo».

Quanto vale un figlio in Italia?

«Ai fini dell’Isee, il totale dei redditi e del patrimonio immobiliare viene diviso per un coefficiente, in base al quale il primo figlio ha un valore di 0,47, il secondo di 0,42, il terzo di 0,39 e dal quarto in poi di 0,35. Se in Italia il valore dei figli è decrescente, in Francia avviene il contrario: in virtù del quoziente familiare, al primo e secondo figlio viene dato un valore pari a 0,50, dal terzo poi un valore pari a uno. Il risultato è che in Francia, almeno fino ad oggi, le donne hanno ripreso a fare figli, in Italia, di questo passo, siamo condannati al suicidio demografico».

E il nuovo Isee?

«Ritocca leggerissimamente quei coefficienti. E pensare che abbiamo aspettato dieci anni di gestazione per arrivare a questo documento. Un obbrobio. Quanto costa un figlio l’avete più in testa voi dopo l’inchiesta che avete fatto di chi, materialmente, ha scritto l’Isee. Darò battaglia. Ma temo che il testo arriverà in aula blindato».