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Oltre il caso Iraq. Pace e guerra nella nuova dottrina Usa

DI ENRICO CHIAVACCIIl caso dell’Iraq ha dato al presidente Bush l’occasione di proporre ufficialmente al Congresso una nuova dottrina sulla guerra. Dopo il tragico evento delle Twin Towers Bush ha reagito dichiarando guerra al terrorismo. Questo non può essere sconfitto con l’idea tradizionale di guerra: non è una guerra contro uno Stato sovrano. Ma Bush considera gli Usa in stato di guerra contro chiunque – qualunque Stato – che sostenga o promuova o dia asilo al terrorismo, o che ad esso fornisca armi, o abbia armi (in specie di distruzione di massa: atomiche, chimiche, batteriologiche), o possa svilupparle in un prossimo futuro, che potrebbero esser fornite al terrorismo. A questo scopo occorrono tempi lunghi: non mesi, ma anni. Nella base di Guantanamo si sta iniziando la costruzione di nuove prigioni per terroristi o sospetti di terrorismo, costruzione che si prevede ultimata verso il 2005. Occorre l’autorizzazione all’uso della forza armata da parte di Congresso e Senato Usa per tutto il tempo che tale guerra durerà, il che vuol dire carta bianca per Bush (ricordiamo che negli Usa il presidente è veramente – e non solo di nome – il capo delle forze armate). A questo scopo Bush ha presentato al Congresso un messaggio il 20 settembre. Tale autorizzazione verrà quasi sicuramente concessa nei prossimi giorni, forse in forma più restrittiva: proprio mentre sto scrivendo, critiche severe sono emerse da democratici e anche da repubblicani e da alcuni autorevoli militari. Ma anche nei critici domina la paura di essere considerati «antipatriottici».

Fino ad oggi la guerra poteva essere legittima – secondo accettati standard internazionali – solo per legittima difesa da un attacco diretto o per simili stringenti ragioni, ma solo con l’approvazione dell’Onu. Le decisioni richieste oggi in concreto (Iraq) dalla nuova idea di guerra di Bush saranno presentate all’Onu, ma sia il rifiuto dell’Onu, sia anche le lungaggini diplomatiche e burocratiche dell’Onu che possano contrastare con la (pretesa) urgenza di alcune operazioni, non potranno impedire agli Usa di agire da soli come meglio credono quando siano in gioco non solo la difesa degli Usa, ma anche i loro interessi. Il doppio motivo – difesa e interessi – è esplicito nel documento di Bush. Con ciò di fatto viene rifiutata ogni forma pensabile di diritto internazionale a cui gli Usa possano sentirsi sottoposti. L’elemento più tragico è che anche altri Stati potranno seguire l’esempio Usa.

È questa una costante di Bush: già prima del tragico 11 settembre aveva denunciato in pratica ogni accordo sulla riduzione o distruzione delle armi nucleari o biochimiche, rifiutato ogni impegno preciso in materia ecologica (Kyoto), rifiutato ogni giurisdizione delle Corti internazionali di giustizia sui cittadini americani. La tragica data dell’11 settembre gli ha offerto l’occasione (il pretesto?) per presentare ufficialmente al Congresso e al mondo la sua «dottrina». (Nella prassi Usa il termine ‘dottrina’ indica uno o più principi-guida stabili per le future scelte politiche e militari).

Con la nuova concezione di guerra viene affermato il diritto degli Usa di catturare ovunque, detenere e giudicare i cittadini di qualunque Stato che siano sospettati, a giudizio di Bush, di essere in qualche modo legati al terrorismo internazionale: a Guantanamo, fuori del territorio di competenza dei tribunali Usa, questi prigionieri saranno detenuti a tempo indefinito, senza precise imputazioni e senza alcun diritto alla difesa, per essere prima o poi giudicati da un tribunale militare (in quanto considerati «persone nemiche» di uno Stato in guerra).

La nuova concezione di guerra comporta il diritto degli Usa al «pre-emptive atttack», all’attacco preventivo: un diritto mai riconosciuto fino ad oggi, anche se talora messo in pratica con vari pretesti. L’attacco preventivo è indicato da Bush come strumento necessario contro il terrorismo: questo non appare legato o promosso da un solo specifico Stato, e perciò è imprevedibile. È dunque necessario colpire prima che il terrorismo possa colpire: colpire cioè ovunque esistano, o si producano, o si possano in futuro produrre armi adatte ai terroristi, in Stati o regioni nemiche degli Usa o comunque non affidabili. Da tempo sono stati elencati ufficialmente gli Stati costituenti «l’asse del male»: Iraq, Iran, Nord Korea. Ma l’elenco è stato ampliato in via ufficiosa a molti altri Stati: ad esempio a Yemen, Sudan, Egitto, Siria, Cina. Non interessa che i governi supportino azioni terroristiche: interessa solo che abbiano o possano avere armi di cui i terroristi possano disporre, o siano sede di gruppi terroristici. Ed è qui il senso del «chi non è con noi è amico o fa il gioco dei terroristi»: i Paesi amici tradizionali degli Usa debbono adeguarsi.

Gli Usa sono, e devono restare l’unica superpotenza nel mondo, l’unica capace di distruggere qualunque altro Stato o regione della terra. Per questo si abbandona la dottrina della deterrenza (i terroristi suicidi sono impermeabili a tali timori) e la conseguente dottrina relativamente pacifica della non-proliferazione delle armi non convenzionali, e si proclama la dottrina della contro-proliferazione. Cade ogni remora – per gli Usa – alla ricerca, sperimentazione, produzione di nuove armi (con grande vantaggio per le enormi corporations Usa che investono in ricerca, sviluppo, produzione in tale settore). Il budget militare per quest’anno credo si avvicini ai 500 miliardi di dollari, mentre ai tempi più bellicosi di Reagan era di circa 300. Nessun Paese al mondo ha oggi tali possibilità finanziarie, produttive, tecnologiche. I concorrenti possibili – ma non prima di qualche decina di anni – sembrano solo Cina e forse India. Commentatori competenti indicano il 2017 come data possibile per una rotta di collisione fra Usa e Cina.

In realtà la giusta preoccupazione per il terrorismo sparisce di scena: resta solo, e quotidianamente ribadita, come copertura morale della nuova dottrina. Domina invece la preoccupazione di mantenere un dominio incontestato sul mondo. L’Onu è di fatto tagliata fuori. Banca mondiale e Fondo Monetario internazionale sono stati esplicitamente dichiarati come possibili strumenti di persuasione per i Paesi (poveri) che non si adeguino. La giustificazione etica è semplice: gli Stati Uniti difendono i grandi valori della libertà, della democrazia, dei diritti dell’uomo. È importante capire la mentalità dell’americano medio.

Per gran parte dei cristiani statunitensi (bianchi) l’America è terra benedetta da Dio per portare nel mondo questi valori. La chiesa dei Santi del Settimo Giorno (i Mormoni) lo dichiara esplicitamente. I tanti predicatori televisivi incitano quotidianamente a questo patriottismo nazionalistico-religioso, che spesso si fonde con motivi razzistici (in molti campus universitari del Sud è vietato il «dating» – appuntamenti – fra giovani bianchi e neri, e proprio in uno di questi, se ben mi ricordo, Bush iniziò la sua campagna elettorale). È una specie di fanatismo diffuso che noi difficilmente possiamo valutare, ma molti attentati terroristici negli Usa sono nati in Usa contro amministrazioni non sufficientemente energiche: là le formazioni paramilitari private e i campi di addestramento relativi sono molto diffusi.

In realtà dietro a questa facciata nazional-popolare vi sono altri interessi. Il 12 settembre 1973 arrivo a Fiumicino dal Viet-Nam del Sud (ero stato là per conto di Amnesty International) con ancora negli occhi la visione di campi di prigionia e di torture indicibili: comprato un giornale, vi trovo la notizia della rivolta militare in Cile. Oggi è noto e documentato che la rivolta contro un governo democratico fu voluta e preparata dagli Usa per mantenere il controllo in America Latina in genere e sulle miniere cilene di rame in specie. Un Paese amico degli Usa, l’Arabia Saudita, è retto dispoticamente dalla famiglia reale e con regole islamiche ben peggiori di quelle del sanguinario Saddam (che non è musulmano). Ma l’Arabia Saudita è un Paese amico degli Usa, il maggior produttore di petrolio, con interessi finanziari congiunti in una stessa grande Finanziaria di cui è esponente il padre di Bush, il presidente della guerra del Golfo. L’Iraq ha armi biochimiche – si sa da anni – e le ha adoperate tranquillamente contro i curdi senza che gli Usa, con cui erano fino al 1990 alleati, avessero nulla da obiettare. Il Pakistan ha un governo nato da un colpo di stato, è quasi totalmente islamico, ma è stato il grande veicolo di armi americane verso l’Afganistan per combattere i russi, e oggi per combattere il regime afgano. I fondamentali diritti dell’uomo s ono violati quasi ovunque nei Paesi dell’America Latina, tutti amici (e sudditi) degli Usa.

La copertura etica della volontà dichiarata di dominare il mondo non regge anche al più superficiale degli esami. Questo non vuol dire che ai nostri giorni, in un mondo in via di globalizzazione in cui ormai tutti i membri della famiglia umana sono in vario modo responsabili verso tutti, e quindi le scelte di ciascuno – Stato o cittadino – hanno in qualche misura un impatto sull’oggi e sul domani della famiglia umana, non si debba ripensare il problema della legittima difesa anche armata. La sede esistente per questo dovrebbe essere l’Onu. L’Onu non funziona bene, ma già nella sua Carta di fondazione (1945) contiene un importante principio: quando appaia la necessità di un’azione militare, si devono cercare tutte le vie per evitarla e nei casi limite essa dovrà essere approvata dall’Onu e restare sotto la direzione o controllo Onu, anche se condotta da forze armate di singoli Stati. Questa è più o meno la ‘dottrina’ nata dalla immane tragedia della seconda guerra mondiale. Il primo e più urgente impegno politico è costruire un’Onu efficiente, e rispettarne l’autorità: nessuno Stato, per potente che sia, dovrebbe sottrarsi a questo dovere verso l’umanità intera, presente e futura. Sulla stessa linea, ma con ben più profonda riflessione etico-cristiana, è la dottrina della Gaudium et spes (nn.77-82).

La «dottrina» enunciata da Bush è l’esatto contrario. Gli Usa procederanno alla difesa dei loro interessi con o senza l’Onu e – al bisogno – anche da soli se non trovano alleati compiacenti. Sono e devono restare l’unica super-potenza al mondo per garantire la propria difesa e i propri interessi e – subordinatamente – quelli dell’umanità. Ma difesa e interessi dell’umanità sono quelli visti con gli occhi e nella logica del presidente Bush. Lo scopo di questo mio intervento non è quello di discutere sulla guerra all’Iraq: è invece quello di studiare più in profondo in quale quadro mentale e in quale visione della storia essa vada collocata. Quadro mentale e visione della storia che non sono certo condivisi da gran parte del popolo e della tradizione statunitense, anche se l’offesa delle due torri ha potuto offuscarli sul piano emozionale. Gran parte della stampa americana più importante, e attraverso di essa dell’opinione pubblica più preparata, ha criticato severamente, e sempre con maggior insistenza (proprio mentre sto scrivendo), sia il quadro mentale sia la visione del compito degli Usa nella famiglia umana propri di Bush. Va ricordato che Bush è stato eletto con una maggioranza assai dubbia di voti elettorali (voti degli stati), e da una minoranza di poco oltre il 20% dei cittadini. Tutti gli elementi essenziali che ho cercato di esporre, e quasi tutte le osservazioni critiche che ho proposto, sono tratte da quattro grandi quotidiani Usa: New York Times, Washington Post, Los Angeles Times, International Herald Tribune, e dal settimanale Newsweek. Non ha senso parlare di posizioni preconcette antiamericane: si tratta invece di una posizione di forte critica dell’attuale amministrazione americana. «Chi non è con me è contro di me» sono parole che si addicono al Signore Gesù, non al presidente Bush. Dobbiamo essere uniti agli Usa nella lotta contro il terrorismo, non invece nelle «dottrine» e nelle forme con cui egli tenta di imporre al mondo (e all’Europa) di condurre questa lotta.27 settembre 2002

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