Italia
Chiesa e media, la lezione delle «Parabole»
Allora, monsignor Bianchi, a cosa può essere attribuita una tale affluenza?
«Faccio due considerazioni. La prima è che si è ormai propagata una sensibilità nei confronti di questa dimensione nuova dell’azione della Chiesa nel mondo, per cui una proposta di questo genere ha ricevuto immediatamente adesione a tutte le latitudini nella stessa Chiesa italiana. La seconda è che si sta diffondendo la coscienza che i mezzi di comunicazione sociale vanno considerati non solo come strumento attraverso i quali agire ma anche come ambito all’interno dei quali agire».
Quale le sembra il filo conduttore che ha percorso il convegno?
«Per quanto riguarda i contenuti, il filo rosso credo sia rintracciabile nel rapporto fra cultura-comunicazione-evangelizzazione. Durante i lavori è emersa la necessità di fare cultura in un tempo massmediatico in cui ancora una volta i media non sono solo strumento di diffusione ma agenti culturali; inoltre si è insistito sulla presenza dell’impegno di evangelizzazione nei confronti dei media e attraverso i media».
Qual è stato, a suo parere, il valore del convegno?
«Il primo e, a mio avviso, decisivo valore, lo coglierei nel fatto che è stato un incontro ecclesiale cioè scelto, voluto, realizzato dalla Chiesa italiana attraverso i vescovi. Un altro aspetto positivo riguarda l’ambito scientifico, delle relazioni, dei relatori, della completezza dell’arco tematico. Un ultimo valore, infine, è la crescita di percezione del problema e della risorsa che costituiscono oggi i media».
E i limiti?
«Mi sembra che ci sia stato un eccesso di argomenti affrontati. Forse sarebbe stato meglio focalizzare di più su alcuni punti nodali. E poi il tutto si è esaurito nelle relazioni, non c’è stato lo spazio per il dibattito e la partecipazione dell’assemblea».
La Chiesa italiana è a una svolta. Ma come si può passare dalle parole ai fatti?
«Occorre riversare il convegno dentro la vita delle nostre comunità cristiane. Serve un rilancio di mentalità sui temi della comunicazione. In secondo luogo bisogna attivare dentro ogni diocesi una vera pastorale della comunicazione sociale che passa attraverso la figura dell’incaricato. Un terzo aspetto su cui puntare è quello del coordinamento tra le risorse della Chiesa nell’ambito dei media. Se vogliamo essere significativi nel mondo dei media bisogna essere coordinati, comunicare sulla stessa lunghezza d’onda nei confronti dei destinatari».
Come spiega il senso di sfiducia di alcuni cattolici nei confronti dei media di ispirazione cristiana?
«Credo che le cause possano essere tre. In primo luogo ritengo che mentalmente non si comprende ancora la vera importanza dei media. La seconda causa è la mancanza di un forte spirito missionario nelle nostre Chiese che si esprime anche in un non investire in fiducia nei media, quindi nel lasciarli vivere di una vita larvale, senza abbatterli e senza farli volare. La terza causa riguarda il complesso di inferiorità dei cattolici a livello culturale verso quello che appartiene al loro ambito: ciò che è nostro non vale e ciò che è degli altri conta come qualcosa di più grande».
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