Italia
America Latina, una speranza di nome Lula
di Pier Antonio Graziani
Le esplosioni per simpatia capitano anche nella geopolitica. L’America latina di questi ultimi tempi ne è un esempio. Aveva precorso gli eventi l’ennesima crisi argentina, con le banche che chiudevano gli sportelli e le donne in piazza a battere sulle casseruole vuote. Classi dirigenti incapaci che si sono mosse fra il populismo di origine peronista, il potere dei militari e il pressappochismo di chi è venuto dopo.
Dopo l’Argentina, il Venezuela, dove un militare ex-golpista, riuscito a salire al potere con il voto popolare, nello spazio di poche ore, l’aprile scorso, veniva deposto da un golpe di una frazione minoritaria delle forze armate, dalla Confindustria e sinanche dai sindacati.
Chavez non è quel che si dice uno stinco di santo non solo per il precedente golpista che l’avrebbe dovuto far temere dagli elettori, ma anche per il suo peronismo d’accatto che lo ha magari reso popolare negli strati meno protetti della popolazione ma non gli ha consentito quella sintesi degli interessi in funzione del bene comune del paese. Detto questo l’impressione è tuttavia che Chavez sia stato soprattutto messo all’indice dagli Stati Uniti, se è vero, come è vero, che, con tempismo di miglior causa (dal loro punto di vista), gli Stati Uniti, appena la notizia del golpe era stata battuta dalle agenzie internazionali si precipitarono a complimentarsi con i nuovi arrivati. Fu però questione di ore e Chavez fu riportato al potere dai militari e dai quartieri poveri di Caracas.
Puzzo di petrolio? Anche, visto che il Venezuela esporta negli Usa il 15 per cento del fabbisogno americano e che gli americani temono per gli interessi delle compagnie minacciati dal nazionalismo di Chavez.
Due segnali inquietanti, dunque, dall’Argentina e dal Venezuela, un segnale promettente invece dal Brasile dopo la vittoria di un leader operaio, Louis Ignacio da Silva detto Lula, nelle presidenziali dell’ottobre scorso. Segnale positivo per più di un motivo, anche se in alcuno di questi motivi può celarsi l’antidoto. Vediamo brevemente perché: Lula arriva al potere da ripetente: il suo partito lo aveva già candidato altre tre volte ma doveva superare lo sbarramento troppo forte della confederazione degli industriali, la diffidenza delle classi medie, ed infine il potere forse più forte del Brasile in materia di orientamento dell’opinione pubblica: la tv e i mezzi stampa di O’Globo del signor Marinho che nelle elezioni dell’89 aveva addirittura fatto eleggere uno sconosciuto come De Mello.
Di suo Lula ci metteva quel tanto di radicalismo che lo faceva apparire più demagogo che uomo di stato.
Lula ha ora sbaragliato, convincendo evidentemente non solo i ceti operai che sempre l’hanno sostenuto, ma anche buona parte delle classi medie e degli stessi imprenditori.
Sono tanti favori che, c’è da aspettarsi, domani qualcuno vorrà esigere come una cambiale in scadenza. Il che richiede in Lula grande capacità di governo, un forte senso dell’equilibrio ma soprattutto la necessità, evitando la scorciatoia della demagogia, di non deludere le aspettative per una società brasiliana che accorci lo squilibrio (qui più evidente che altrove) fra chi sta bene e chi è paria. È la scommessa che egli ha fatto candidandosi, ma è anche la speranza del suo paese e sinanche dell’intera America Latina. Nessuno gli farà grossi sconti. A cominciare dagli Stati Uniti che hanno già inviato un segnale a dir poco di scarso fair play facendosi rappresentare alla cerimonia di insediamento di Lula non da un ministro ma solo da un funzionario.
Né Castro né Peron, la via di Lula non può che essere diversa ma neppure copiata sulla falsariga di arrendevolezza colpevole di fronte a tutti i poteri forti, esterni ed interni. L’Europa farebbe bene a dargli una mano.
Nell’ottobre scorso, con il 61% dei voti, Lula ha superato al ballottaggio per le presidenziali il candidato moderato José Serra,
Crisi economica, ma soprattutto politica in Venezuela, dove da oltre un mese uno sciopero voluto dagli industriali petroliferi e dall’opposizione paralizza il paese e mira alle dimissioni del presidente Chavez (nella foto una manifestazione in suo favore), reo di voler riformare la compagnia petrolifera statale.
Ancora più difficile la situazione in Colombia, dove il 20 febbraio 2002 il presidente Andrea Pastrana ha interrotto il processo di pace con le Farc, Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia. In un anno le vittime di attentati, operazioni di polizia, bombardamenti e scontri tra le Farc e le Uac (gruppi paramilitari di autodifesa) sono migliaia, compresa una decina di missionari, tra i quali l’arcivescovo di Cali Isaías Duarte Cancino, 7 sacerdoti, un monaco ed un seminarista. Le Farc tengono in ostaggio circa 800 persone.
Una buona notizia arriva invece dall’Ecuador, dove il nuovo presidente Gutierrez, ha designato ministro degli esteri una donna india, Nina Pacari Vera, e un altro indio, Luis Macas, ministro dell’agricoltura. È la prima volta, a cinque secoli dalla colonizzazione, che degli indios entrano a far parte del potere politico.