Italia
Referendum a rischio quorum

Eppure non c’è molto da rallegrarsi del silenzio che sta circondando questi referendum. La stragrande maggioranza dei cittadini, come dimostrano alcuni sondaggi, non è informata su quale sia la posta in gioco, anche perché la Commissione di vigilanza sulla Rai ha deciso una linea di basso profilo. E questo in una democrazia non è mai un buon segnale. Vediamo allora per entrambi i quesiti le ragioni dei sì, del no e dell’astensione.
Lo Statuto dei lavoratori è del 1970, gli anni d’oro del movimento sindacale. All’art. 18 prevede una tutela rafforzata per i lavoratori assunti in aziende con più di 15 dipendenti (5 nell’agricoltura) o comunque alle dipendenze di datori di lavoro con almeno 60 occupati sul territorio nazionale. In questo caso, oltre alla «garanzia obbligatoria», prevista dall’art. 8 della legge 604 del 1966, che comporta l’obbligo del datore di lavoro di riassumere il lavoratore o, in alternativa, di corrispondergli un’indennità quando il licenziamento risulti privo di una giusta causa, lo Statuto prevede anche una «garanzia reale», cioè l’obbligo di reintegro nel posto di lavoro e un’indennità a titolo di risarcimento del danno subito, con la possibilità di rinunciare al reintegro ed ottenere in alternativa ad esso un’ulteriore indennità. Tutti ricorderanno il dibattito che ci fu in Italia quando il governo Berlusconi pose con forza l’ipotesi (poi abbandonata) di sospendere sperimentalmente questa tutela dell’art. 18.
Questo referendum è figlio di quel dibattito tutto ideologico anche se verte su una questione diversa: il governo voleva sospendere a tutti l’obbligo di reintegro, considerandolo una condizione per liberalizzare il mercato del lavoro, mentre il referendum chiede l’esatto contrario: estendere a tutti i dipendenti a tempo indeterminato questa tutela. Detto così potrebbe sembrare un quesito «tecnico» ed invece assume connotati fortemente politici. La vittoria del «no», ad esempio, finirebbe per esser letta non solo come una bocciatura del quesito referendario, ma anche come un «via libera» degli italiani anche alla proposta iniziale del governo (cioè la sospensione dell’art.18) e ad altre misure di riduzione delle tutele dei lavoratori. D’altra parte la vittoria dei «sì» rischierebbe di non portare grandi vantaggi ai lavoratori (perché nelle piccole aziende, per molti motivi, si ricorre di meno ai licenziamenti senza giusta causa) e di ingessare ancora di più un mercato del lavoro già troppo rigido. Ecco perché sindacati come la Cisl e la Uil, che pure erano contrari all’iniziativa del governo, invitano oggi all’astensione. Ma non illudiamoci: anche l’astensionismo potrà subire letture di comodo da una parte e dall’altra.
Se sull’articolo 18, anche grazie alla Cgil, un po’ di mobilitazione c’è stata, sulla «servitù coattiva di elettrodotto» il silenzio è quasi assordante. Il problema invece non è secondario. Le norme sottoposte a referendum risalgono al 1933, epoca nella quale non si aveva nozione di cosa fosse l’inquinamento elettromagnetico ed era necessario favorire in ogni modo la costruzione di elettrodotti. Oggi la sensibilità ambientale è cambiata (anche con evidenti contraddizioni, come chi non vuole antenne per telefonini vicino a casa, ma pretende una copertura totale per il proprio cellulare). L’inquinamento elettromagnetico, pur senza prove definitive, è finito nel mirino degli esperti come responsabile di tumori e altre malattie, tanto è vero che il legislatore ha provveduto a stabilire delle regole più o meno severe (sulla vicinanza a scuole e ospedali, ad esempio).
Forse il referendum non è la strada migliore, ma qualche limite allo strapotere delle società elettriche andrebbe posto. Se vincerà il sì gli enti locali potranno dire la loro sulla costruzione di nuovi elettrodotti, e questo è positivo. Resta il dubbio che l’abolizione della servitù coattiva (cioè l’impossibilità per il proprietario del fondo di opporsi) finisca per generare liti civili che si concludono con procedimenti di esproprio. Più difficile in questo caso sostenere le ragioni dell’astensione, eppure in molti lo fanno per l’effetto traino dell’altro referendum. Dire ai cittadini: «votate sugli elettrodotti e non sull’art. 18» (e si può fare) sembra un messaggio troppo difficile da lanciare. Meglio non correre rischi.
La consultazione è valida se vota il 50% più uno degli aventi diritto. Per la prima volta hanno partecipato al voto (per posta presso i consolati) gli italiani residenti all’estero.
La sentenza della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del referendum sull’art. 18
La sentenza della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del referendum sugli elettrodotti
Comitato per il sì al referendum sugli elettrodotti
Materiale a favore del referendum sull’art.18