Italia
Acqua minerale, scandalo sommerso
A portarsi su per le scale litri e litri di «oro blu» in mosci contenitori di plastica sono l’85% delle famiglie italiane, che nella maggior parte dei casi accaparrano il prezioso liquido in iper e supermercati (2,8 miliardi di litri sui 7 complessivi).
È una lunga storia quella delle acque minerali italiane che ora, finalmente, ci racconta in modo dettagliato e documentato il giornalista di «Famiglia cristiana» Giuseppe Altamore nel libro Qualcuno vuol darcela a bere (Genova, Fratelli Frilli Editori, pp. 210, euro 14,00). Si tratta di un’inchiesta che racconta come una potentissima lobby ha potuto condizionare le scelte politiche di vari governi fino ad ottenere una legislazione molto attenta alle esigenze commerciali dei produttori di acque minerali ma poco rispettosa della salute dei consumatori. Con un paradosso incredibile: esaminando attentamente il testo della legge si scopre che l’acqua di rubinetto può essere più sicura della minerale. Esistono infatti controlli e limiti più severi relativi alla presenza di sostanze tossiche nell’acqua potabile. L’arsenico, per esempio, non può superare la concentrazione di 10 microgrammi per litro, mentre chi beve acqua minerale può ritrovarsi nel bicchiere una dose fino a 5 volte superiore. Un limite addirittura più generoso di quello previsto per le acque reflue, che non possono superare i 20 microgrammi per litro.
Il libro spiega quali interessi hanno spinto l’industria dell’acqua minerale a usare ogni mezzo per condizionare le scelte del Parlamento, fino a bloccare almeno due tentativi di riforma della normativa che regola il settore. Si racconta come un perito chimico italiano sia riuscito a far avviare una procedura d’infrazione da parte dell’Unione europea nei confronti dell’Italia per il mancato rispetto delle direttive europee in materia di tutela della salute dei consumatori e come ancora una volta l’abbiano spuntata le multinazionali dell’acqua, che sono riuscite ad aggirare le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità e perfino le severe norme del Codex alimentarius che regolano il commercio internazionale. Ma che cosa hanno da nascondere i produttori di acqua minerale? Che cosa rischiano i consumatori, ignari di ciò che si nasconde dentro la bottiglia? Intanto, ben due procure della Repubblica (Torino e Bari) stanno indagando sull’affaire della minerale: sono già stati operati alcuni sequestri e il Ministero della salute il 20 giugno scorso ha sospeso con un decreto l’autorizzazione per la Fiuggi di imbottigliare l’acqua della Fonte Bonifacio VIII.
Il libro, che martedì scorso è stato presentato alla Libreria Feltrinelli di Firenze, dedica anche un ampio capitolo ai rischi per la salute dei consumatori, legati soprattutto al cloro utilizzato per disinfettare l’acqua potabile.
A subire pressioni sono anche i mezzi di comunicazione di massa: giornali, radio e tv. Altamore, in occasione nella presentazione del libro a Firenze, ha raccontato di aver chiesto ufficialmente al Ministero della salute i risultati delle analisi sulle dieci marche di acque minerali più vendute e di aver avuto per tutta risposta una telefonata da parte di «Mineracqua» (la Federazione italiana delle industrie delle acque minerali naturali, delle acque di sorgente e delle bevande analcoliche), l’unico interlocutore delle imprese produttrici. Il che vuol dire, a giudizio del giornalista di «Famiglia cristiana», che nel Ministero ci sono degli «infiltrati» dei produttori di acque minerali e che la tecnica per convincere editori, giornali e direttori a rinunciare a certe inchieste è quella del «ricatto della pubblicità». Del resto, la torta è veramente ghiotta: il totale degli investimenti lordi pubblicitari su tutti i mezzi è stato nel 2002 di quasi 300 milioni di euro (per l’esattezza 296.409.000 euro pari a circa 600 miliardi delle vecchie lire). In percentuale il 62% della cifra è stato destinato alla pubblicità in televisione, il 14% sui giornali, l’11 alla radio, il 10 sui periodici e il 3% è stato destinato alle affissioni.
In testa agli investimenti pubblicitari l’Uliveto (74 milioni di euro) seguita dalla Nestlé (60 milioni di euro), che in Italia significa San Pellegrino, Levissima, Vera, San Bernardo, Panna e nel mondo la più nota e più cara: la Perrier, il cui prezzo medio al litro è di 1,48 euro. Praticamente, «un litro di Perrier costa come spiega Altamore quasi 3 mila volte di più dell’acqua potabile di Milano».