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L’uccisione del Nunzio in Burundi

L’uccisione di monsignor Michael Aidan Courtney, nunzio apostolico in Burundi (nella foto), oltre a essere, come è stato detto e scritto, “un caso straordinario, di cui non si ha memoria storica per l’epoca moderna” è stata perpetrata in un momento molto delicato per questo Paese che negli ultimi mesi sembrava aver imboccato la strada giusta per uscire da una guerra civile decennale, responsabile a quanto pare di almeno 300mila vittime e di centinaia di migliaia di profughi e sfollati su una popolazione di circa sei milioni. Diverse ore dopo l’episodio, alcuni aspetti della vicenda non sono ancora chiari e dovranno essere, secondo una promessa del presidente del Burundi Domitien Ndayzeye, oggetto di una sollecita e accurata inchiesta.

Per ora, è certo soltanto che il veicolo con a bordo il rappresentante della Santa Sede in Burundi è stato raggiunto da vari proiettili in una località nei pressi di Minago, 40 chilometri circa a sud della capitale Bujumbura, e che alcuni colpi hanno ferito mortalmente monsignor Courtney causandone, qualche ora dopo, il decesso in ospedale. Secondo alcuni, tra i quali Ndayzeye, si sarebbe trattato di un ‘agguato’ in cui chi ha sparato lo ha fatto ‘per uccidere’; secondo altri, l’auto sarebbe malauguratamente capitata nel bel mezzo di uno scontro a fuoco tra truppe dell’esercito di Bujumbura e ribelli delle Fnl, Forze di liberazionenazionali – unico gruppo di rivoltosi ancora in armi contro il governo -impegnati da giorni a combattersi nella zona.

Le forze armate burundesi e alcune fonti governative hanno subito puntato il dito contro i ribelli. Le Fnl smentiscono però di essere coinvolte nell’accaduto e accusano a loro volta l’esercito. Secondo una ricostruzione resa possibile dalle fonti della MISNA sul posto, il mezzo su cui viaggiava il nunzio, in compagnia di altre tre persone (l’autista, un sacerdote, ed un ragazzo incontrato per strada a cui era stato dato un passaggio), è stato d’improvviso investito da nutrite scariche di pallottole provenienti da un lato e dall’altro della strada. L’automobile ha continuato la sua corsa e, qualchedecina di metri più avanti, dai bordi della strada sono partiti altri colpi.

Fonti religiose presenti nella clinica ‘Prince Rwagasore’, l’ospedale di Bujumbura in cui il nunzio è stato portato d’urgenza, hanno detto alla MISNA che il corpo di monsignor Courtney presentava numerosi fori di pallottola (più dei tre di cui si era parlato in un primo momento) incluso quello forse letale, alla testa, vicino all’orecchio destro. Dall’insieme delle notizie raccolte è emerso anche che il nunzio doveva rientrare domenica da Bururi (vi si era recato per officiare i funerali di un religioso locale morto nei giorni scorsi in Italia, a Catania, dove si trovava per motivi di studio), ma, a causa degli scontri nella zona tra le truppe governative e i ribelli delle Fnl, aveva preferito passare la notte a Bururi e partire il giorno successivo. La tragica fine di monsignor Courtney ha provocato ancor più amarezza tra coloro che a Bujumbura sapevano di una notizia ufficiosa e finora non confermata: secondo alcune fonti religiose sembra che pochi giorni fa il presule avesse ricevuto la comunicazione di un suo imminente incarico a Cuba, a capo di quella delegazione aspostolica di cui aveva già fatto parte in passato.

Secondo ambienti diplomatici di Bujumbura, la morte di monsignor Courtney potrebbe ora gettare un’ombra pesante anche sul processo di pace che, appoggiato senza riserve dallo stesso nunzio, proprio nelle ultime settimane aveva cominciato a dare i frutti sperati, dopo il grande sforzo compiuto dalla diplomazia internazionale per mettere fine al lungo e sanguinoso conflitto.

Il 21 ottobre 1993 segnò ufficialmente l’inizio dell’ultima guerra burundese, e l’avvio di un circolo d’odio e risentimento che per un decennio ha stretto e tormentato il Paese causando la morte e il tormento di tanta parte della popolazione che, al 70 per cento, vive sotto la linea di povertà in un territorio tutt’altro che privo di risorse naturali. Quella data per le due etnie burundesi, la maggioranza Hutu (85 per cento) e la minoranza Tutsi (14 per cento) ha significati opposti: gli Hutu ricordano l’uccisione del loro primo presidente eletto, Melchior Ndadaye, mentre i Tutsi ricordano i morti della violenza etnica successiva a quell’omicidio. “Dal 1993 a oggi il Paese ha vissuto dieci anni di violenze, di miserie e di fame – ha spiegato recentemente una fonte della MISNA – dieci anni in cui centinaia di migliaia di persone sono state uccise o sono morte di stenti. Dieci anni in cui uomini, donne e intere famiglie sono stati costretti ad abbandonare le loro terre e dimore,a lasciare tutto per la guerra e per il timore di violenze e rappresaglie di questa o quella parte”. Eppure, a ottobre scorso il governo e il principale gruppo ribelle di matrice ‘hutu’, le Fdd (Forze per la difesa della democrazia), avevano siglato uno storico accordo che aveva riacceso le speranze di pace, seguito a novembre da un’intesa in base alla quale non solo veniva sancito l’ingresso della formazione armata nel governo, ma era garantita una rappresentanza delle Fdd (il 40 per cento) nei vertici delle forze armate.

Un patto sigillato appena qualche giorno fa con la nomina del numero due delle Fdd a vice capo di Stato maggiore. L’ingresso degli ex-ribelli nei quadri dell’esercito sarebbe, secondo gli esperti, il punto più delicato dell’intero negoziato. Sia le Fdd che le Fnl – il secondo gruppo armato ‘hutu’ per numero e dimensioni – avevano infatti sempre sostenuto che l’esercito, ritenuto il vero detentore del potere nel Paese, restava appannaggio esclusivo dell’etnia ‘tutsi’. Questa accusa ha vanificato di fatto, secondo alcuni osservatori, l’intesa di pace siglata ad Arusha (Tanzania) tre anni fa, quando nel marzo del 2000 le due etnie si accordarono per un governo di unità nazionale misto. Alcuni osservatori politici fanno notare che l’ingresso delle Fdd nell’esercito sarebbe però molto mal visto sia dall’ala più intransigente delle forze armate burundesi sia da quei ribelli che intendono proseguire la guerra ad oltranza.a cura di Massimo Zaurrini e Pietro Mariano Benni Scheda: i martiri del 2003Secondo i dati resi noti dall’Agenzia Fides, nell’anno 2003 hanno perso la vita in modo violento 29 tra Arcivescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e laici. L’ultimo, il 29 dicembre, il Nunzio in Burundi mons. Michael Courtney. Come sempre negli ultimi anni, il conteggio non riguarda solo i missionari ad gentes ma tutto il personale ecclesiastico ucciso in modo violento o che ha sacrificato la vita consapevole del rischio che correva: sono i “martiri della carità” secondo l’espressione di Giovanni Paolo II. Alcuni di questi “martiri” sono stati trovati ore o giorni dopo il decesso, a volte massacrati con altre persone che si trovavano occasionalmente con loro o avevano cercato rifugio nelle parrocchie o collaboravano al loro impegno pastorale; spesso sono stati vittime – almeno in apparenza – di aggressioni, rapine e furti perpetrati in contesti sociali di particolare violenza e povertà.Dei 29 martiri, 20 erano sacerdoti, 1 religioso, 3 i seminaristi, 2 le volontarie laiche e 2 i laici. Chiude l’elenco 1 arcivescovo. Tra i luoghi del martirio il Continente africano registra 17 vittime, l’America 10, l’Asia 2. Anche l’Italia ha pagato il suo tributo. Dei 7 martiri di origine europea 3 erano italiani. Si tratta di padre Taddeo Gabrieli, morto in Brasile, di padre Mario Mantovani, morto in Uganda e della volontaria Annalena Tonelli, morta a Borama in Somalia.Misna

NUOVI PARTICOLARI SULL’UCCISIONE DEL NUNZIO