Italia

Pantani, l’ultimo traguardo

di Antonio CecconiIn salita volava. La bicicletta sfuggiva alla forza di gravità, il corpo tutto muscoli e nervi era calamitato all’in su, verso la vittoria. Uno scatto secco e non c’era scampo per nessuno. Vittorie su vittorie, nel ’98 maglia rosa e subito dopo maglia gialla: l’ingresso nella leggenda del ciclismo con Coppi, Merckx e pochi altri.Marco Pantani, oltre a possedere doti atletiche non comuni, ricorreva al doping. Alla penultima tappa del Giro d’Italia del ’99, che stava per rivincere, fu fermato prima della partenza della penultima tappa per valori ematici al di sopra della norma. Probabile uso di Epo, farmaco che serve per anemie e leucemie poiché facilita il trasporto di ossigeno nel sangue; nel corpo di un atleta sano dà più energia ai muscoli, più resistenza alla fatica e il rischio di embolie e trombosi. Dopo quell’episodio, il «Pirata» non è stato più lui.

Pantani pedalava come nessuno e prendeva farmaci proibiti come tanti, come (quasi) tutti. Varie ispezioni e controlli, resi possibili da norme più severe, hanno trovato a più riprese vere farmacie viaggianti nelle stanze dei ciclisti, nelle auto delle squadre, nei camper dei familiari. I ciclisti hanno medici e preparatori atletici personali, non tutti dai trascorsi irreprensibili; chi fa vincere un campione, si procura altri clienti. Ci sono ciclisti che pedalano per mesi in fondo al gruppo per «esplodere» in un dato momento della stagione. C’è il crescente numero di decessi improvvisi, inspiegabile in atleti che sono l’immagine della salute. Non solo nel ciclismo.

C’è tanta ipocrisia, o addirittura omertà. Nessuno vuol dichiarare che il re è nudo, anche se lo sanno tutti: atleti, direttori sportivi, sponsors, medici sociali, dirigenti, politici, giornalisti. Anni fa il presidente del CONI Pescante si dimise per lo scandalo dei laboratori federali dove si effettuavano analisi di comodo.Marco Pantani è stato vittima – in qualche misura consapevole – di tutto questo. Lui come tanti altri era stato indotto a «truccare» il motore per alzarne i giri, preso nel vortice di uno sport fachiresco. Sempre più gare da disputare, allenamenti interminabili, velocità più elevate, prestazioni costantemente al limite, lo stress sempre in agguato.

Una sorta di presagio: diceva che avrebbe potuto non farcela. Nei giorni dei maggiori trionfi – le sequenze televisive di questi giorni l’hanno confermato – più rabbia che gioia, nello sguardo un fondo di tristezza, una piega mesta della bocca nel sorriso.

Preghiamo perché riposi in pace. E speriamo che la sua morte provochi nel mondo del ciclismo un sussulto di dignità, restituendo allo sport significati umani e responsabilità etiche: lealtà, valore e gioia della vita, rifiuto di un successo che costruisce idoli, accettazione della sconfitta. Per vincere e per far soldi non si deve mettere a rischio la salute, non si possono troncare giovani vite.

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