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Kosovo, torna l’incubo della guerra civile
Serbi o albanesi, entrambi hanno più di un quarto di nobiltà kosovara da rivendicare. I serbi, innanzitutto, perché qui nacque il loro primo stato, perché qui ci sono le orme e le pietre della loro cultura nazionale e religiosa, in definitiva il memoriale della loro storia. Non a caso nei disordini etnici di pochi giorni fa gli albanesi si sono prodigati soprattutto nell’incendiare e distruggere chiese e monasteri ortodossi. Più che in nome dell’Islam, che professano, in nome di una etnia che qui risiede in maggioranza sin dal lontano 1389 quando sulla spianata detta dei merli l’esercito serbo fu travolto da quello ottomano e la Serbia fu sottomessa. E, per essi, cancellata.
Così da lungo tempo il Kosovo è stato abitato da una maggioranza albanese musulmana che si è considerata di casa, e da un minoranza serba che si è sentita a casa propria in forzata coabitazione. Perché le cose potessero reggere c’era bisogno che Belgrado impedisse alla maggioranza di essere intollerante perché qui residente da un pezzo e alla minoranza serba di non pretendere che la continuità etnica, religiosa e nazionale che poteva vantare con il potere centrale potesse darle particolarissimi diritti.
Il maresciallo Tito, pur nella rigida centralizzazione del potere con cui governava la Yugoslavia comunista, seppe garantire al Kossovo una autonomia di cui ha goduto in pratica fino al rompete le fila della Federazione. Milosevic, dittatore serbo, non ha saputo far altro che togliere a questa complessa e difficile provincia l’autonomia di cui aveva sin allora goduto. Come rompere l’unica bottiglia esistente per contenere l’acqua da bere. Guerriglia albanese e repressione del governo serbo ridussero una provincia a un campo di battaglia in cui nessuno si è salvato, gli albanesi innanzitutto, profughi a decine di migliaia, e poi anche i serbi rimasti successivamente: la pulizia etnica.
Senza un intervento internazionale, qui come nella Bosnia Erzegovina la situazione si sarebbe avvitata su se stessa senza via di uscita. Quel che è capitato in questi giorni nel Kosovo ne può dare un’idea. I ragazzini che inseguono altri coetanei di etnia diversa, e provocano, direttamente o anche indirettamente ai fini del discorso importa meno, il loro annegamento non sono proprio gli epigoni dei ragazzi della via Pal. Il loro gioco ripete quello dei grandi. È come l’eco di una tragedia che si sa, forse, quando è cominciata ma non si sa certamente quando potrà finire poiché si tramanda di generazione in generazione. Sia nella Bosnia, sia nel Kosovo l’ingerenza umanitaria tiene ferma una situazione perché non degeneri più di tanto. Non è l’analogo della guerra preventiva, difficilmente giustificabile sotto il profilo morale e anche politico, ma una funzione che dovrebbe essere di un Onu che si decidesse ad assumere (meglio, che fosse messo in condizione di assumere) il ruolo di grande arbitro non disarmato di conflitti e situazioni nelle quali la guerra, quasi ironicamente detta civile, non ha sbocchi.
Dai Balcani, all’Africa, alla Colombia, all’Asia. Uomini, etnie senza ragione, senza cervello e cuore. Si staglia in questo quadro, triste perché perverso, la voce di una povera ma moralmente grande madre musulmana. Suo figlio è uno dei tre annegati inseguiti dai coetanei serbi. Ha invocato la pace con il lamento struggente che il dolore le procurava. Anche in nome del suo ragazzo. Piccola cosa? Se paragonata al dramma del Kosovo, forse sì ma è pure un lume acceso nel buio.