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I cattolici kosovari: «Stop alle violenze»

di Francesco Paletticasco bianco della Caritas in KosovoUn centinaio di persone al massimo. Pacifici più che pacifisti. Forse curiosi. La Domenica delle Palme, che per la comunità cattolica kosovara è la «Domenica dei Fiori», era il giorno scelto per esprimere il proprio «no» alle violenze di metà marzo (28 morti, oltre settecento feriti, 3.600 sfollati e trentuno edifici di culto della chiesa serba ortodossa distrutti o seriamente danneggiati) e un proprio «sì» per la pace. Con gesti simbolici, pacati e semplici: «Stop alla violenza» ha gridato al microfono l’animatore della manifestazione quando i bambini hanno liberato due colombe nella piazza antistante il palazzo dell’Unmik, la missione delle Nazioni Unite che da cinque anni amministra temporaneamente il Kosovo.

Nello stesso luogo che aveva ospitato le violenze delle settimane precedenti, sono stati seminati fiori. Un piccolo abete, invece, è stato piantato poco oltre. Simboli di qualcosa da far germogliare e crescere. Intorno quattro banchetti: hanno raccolto adesioni in calce ad un documento che porta la firma di tutte le associazioni locali e delle organizzazioni non governative internazionali aderenti al tavolo delle Ong di Pejë/Pec (la prima è la dizione albanese, la seconda quella serba). Condannano la violenza certo, ma vanno anche oltre: chiedono «un’analisi dettagliata di ciò che è accaduto» e si dicono convinte che, «l’esplosione di violenza», non ha solo una matrice etnica, «ma è anche una reazione causata dalla frustrazione delle comunità locali per l’inefficienza delle istituzioni e l’inefficacia delle politiche sviluppate negli ultimi cinque anni». Chiamati in causa anche i mass media locali, a cui hanno domandato «d’impegnarsi a riportare i fatti in modo indipendente, in modo da fare solo gl’interessi di un giornalismo responsabile».

Tanti colpevoli, ma anche la consapevolezza che «gli eventi delle scorse settimana hanno diviso le comunità del Kosovo: quella nazionale da quella internazionale e, soprattutto, la maggioranza (albanese n.d.r) dalle minoranze». Da qui la «necessità di rafforzare la collaborazione fra le diverse comunità» perché «l’integrazione dovrebbe essere sostenuta da tutte le parti coinvolte, in modo che, tutti quanti, possiamo costruirci un comune futuro in Kosovo, invece di continuare a condurre esistenze parallele». Quindi la conclusione: «Noi, organizzazioni della società civile, dobbiamo unire le forze per rompere le barriere che dividono le comunità». E un invito, neppure troppo velato, alla comunità internazionale: «Risposte sociali ai bisogni dei cittadini potrebbero aumentare la fiducia fra popolazione e amministratori e le relazioni fra le comunità più e meglio che non l’ulteriore aumento del dispiegamento di forze armate, già massicciamente presenti nella regione».Non erano in tanti, a Pejë/Pec, a dire queste cose domenica scorsa. Ma erano sicuramente rappresentativi: c’era il sindaco, insieme al sacerdote cattolico e all’imam (il quale, ad onor del vero, accanto all’apprezzamento per l’iniziativa, è tornato a riproporre la questione dello «status», cioè del futuro assetto istituzionale del Kosovo, quale nodo centrale da sciogliere per assicurare una pace duratura alla regione).

Mancavano, invece, i rappresentanti delle minoranze, un’assenza tanto pesante quanto scontata: chi conosce un po’ il Kosovo sapeva benissimo che nessuno di loro si sarebbe mai presentato dopo le ferite – ancora troppo fresche – aperte nelle loro comunità dai drammatici fatti di metà marzo.

È una voce flebile quella che ha parlato a Pejë/Pec nella Domenica delle Palme, ma è quella di una società civile che, sia pure timidamente, prova ad esprimersi senza intermediari. È accaduto a Pejë/Pec, ma anche Prizren, dove il 18 marzo scorso – quando ancora gli scontri infuriavano in tutta la regione – è intervenuta anche la Chiesa cattolica che, tramite il vescovo Mark Sopi, ha invitato «alla calma e all’astensione da ogni forma di protesta», esprimendo «profonda amarezza per le notizie di vittime, feriti e gravi danni agli edifici di valore storico, culturale e religioso, patrimonio di tutto il Kosovo».

E a Pristina, dove, lo stesso giorno, 57 organizzazioni non governative hanno chiesto la fine immediata delle violenze e richiamato l’amministrazione internazionale e il governo locale alle loro responsabilità, invitandoli a dar prova di maturità e a cessare con lo scambio di reciproche accuse. Voci flebili e non prive di contraddizioni, ma a cui, forse, vale la pena di cominciare a prestare orecchio.