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Delitto Biagi, la «compagna So» racconta l’agguato

Una crisi esistenziale più che una vera e propria crisi politica. Potrebbe essere questa la molla, a giudizio degli inquirenti, ad aver spinto Cinzia Banelli sulla strada del pentimento. Nessun proclama politico ha infatti scandito il resoconto della donna sugli omicidi di Massimo D’Antona e di Marco Biagi. Più che logico pensare, quindi, che siano state le inquietudini personali, su tutte l’esperienza del carcere vissuta accanto ad un bimbo di cinque mesi, a suggerirle il cambio di rotta. Sta di fatto che, come affermato dall’avvocato Grazia Volo, la Banelli può essere considerata «la prima pentita del terrorismo post anni settanta». E al termine dell’interrogatorio che hanno tenuto i magistrati di Bologna, il procuratore Enrico Di Nicola ha definito «serie» le sue dichiarazioni. Ora, grazie alle sue rivelazioni, i pm Franco Ionta e Pietro Saviotti hanno un quadro più ampio della situazione anche se la donna precisa di conoscere «solo un pezzo della storia delle nuove br».

Non solo: si è anche scoperto che una rapina di autofinanziamento da 300 milioni di lire compiuta a Siena nel ’99 fu portata a termine dalla colonna pisana con l’ausilio di Mario Galesi. I pm, comunque, hanno avuto la conferma che la sede centrale dei terroristi era a Roma ed era composta da Galesi e Nadia Desdemona Lioce. Nella capitale c’era il nucleo più nutrito anche se la Banelli ha detto di non conoscere personalmente i componenti, ma soltanto Galesi e Lioce, e di aver visto per la prima volta Laura Proietti il 20 maggio 1999 quando le consegnò una radio per le comunicazioni. Con gli altri i contatti avvenivano tramite telefono anche se per lo scambio di informazioni non si disdegnava l’uso di dischi informatici. Le altre cellule, compresa quella pisana (composta da lei e da Morandi) avevano una «posizione laterale»: controllavano il territorio loro assegnato e prendevano indicazioni direttamente dalla sede centrale. In riferimento agli attentati D’Antona e Biagi, ha raccontato ancora la Banelli, ognuno aveva un ruolo preciso e non conosceva quello degli altri. Galesi usava le armi e la Lioce faceva da supporto; gli altri avevano il compito di staffetta, ossia controllavano che l’operazione andasse a segno e non vi fossero interventi esterni.

In particolare, Lioce e Galesi passarono la notte precedente l’omicidio D’Antona in uno dei furgoni Nissan parcheggiati in via Salaria. Le indagini degli investigatori proseguiranno adesso sul fronte che riguarda i militanti con i quali la «Compagna So» ha detto di aver avuto contatti telefonici, ma dei quali non sa indicare i nomi, nè i volti. Si riesamineranno tabulati per accertare se i compagni di cui parla la donna sono già finiti nelle indagini, o se si tratti di persone sconosciute. La Banelli ha tuttavia escluso che i fratelli pisani Maurizio e Fabio Viscido, accusati di banda armata, abbiano fatto parte delle br, mentre ha ammesso di conoscere Bruno Di Giovannangelo, indicato come basista per alcune rapine di autofinanziamento.

Il racconto dell’assassinio BiagiArrivarono a Bologna verso le 17 del 19 marzo 2002 i brigatisti che poi uccisero qualche ora dopo, attorno alle 20.20, il prof. Marco Biagi (nella foto il luogo dell’assassinio). Erano in cinque, oltre ad un altro militante che invece operò da Modena per dare il segnale che il docente era salito sul treno che lo portava a Bologna. Tra loro non tutti si conoscevano, una compartimentazione divideva i romani dai toscani; anche chi si era già incontrato dell’altro conosceva, spesso, solo il nome di battaglia. «Io conoscevo Nadia Lioce e Mario Galesi – ha raccontato Cinzia Banelli nell’interrogatorio di martedì 8 settembre condotto dal Pm di Bologna Paolo Giovagnoli – Noi dovevamo conoscerci solo con i nomi di battaglia. Ma Lioce la conoscevo dai primi anni ’90 a Pisa. Di Galesi, il “compagno Piero”, Lioce mi aveva detto che era stato arrestato per una rapina. Roberto Morandi lo conoscevo, ma non sapevo come si chiamasse realmente, conoscevo solo il nome di battaglia».

Così Banelli ha detto di non conoscere la “compagna Maria” che il 19 marzo aspettava Biagi vicino alla stazione di Bologna, dopo aver ricevuto dal brigatista che stava a Modena la notizia che il docente dopo una giornata di lavoro all’Università stava rientrando. La “compagna Maria” («non l’ho mai vista, faceva parte del gruppo romano che non si doveva incrociare con il nostro», ha riferito la compagna So) con una radiotrasmittente disse che il professore era a Bologna poi lo seguì in bicicletta, scandendo i tempi dei passaggi. Nei vari sopralluoghi, infatti, i Br avevano cronometrato la distanza tra la stazione e via Valdonica, dove Biagi abitava. Maria comunicava così il tempo che mancava all’arrivo. Banelli, anche lei in bicicletta, intanto faceva da staffetta, pronta a dare l’allarme in caso di arrivo della Polizia. Lei era sul lato Piazza San Martino, Lioce (terza br in bicicletta) aveva lo stesso compito ma verso via Zamboni. La compagna So vide arrivare Biagi in bici. Il professore imboccò vicolo Luretta che porta in via Valdonica, dove ad attendere il docente c’erano Mario Galesi, che sparò, e Roberto Morandi, armato a sua volta. Tutto questo sempre secondo il racconto di Banelli. Dopo l’omicidio i due scapparono su un ciclomotore Peugoet Geo verde scuro, guidato da Morandi. Dovevano dare con la radio un segnale che l’assassinio era avvenuto, ma, secondo Banelli, si dimenticarono di darlo. Così Banelli vide i due compagni sul motorino con il casco che scappavano verso Piazza San Martino e via Marsala. Allora, sempre via radio, la compagna So dette il segnale che l’operazione era finita: «buonanotte». Che era stato portato a termine l’omicidio di Marco Biagi, nel mirino delle Br, come la compagna So ha riferito, fin dal 2000.

In un primo momento nei suoi confronti si era pensato solo ad un’ azione dimostrativa. Dopo la fuga da Bologna: per evitare le telecamere della stazione centrale (che negli ultimi due mesi non avevano mai frequentato) decisero di lasciare Bologna da tre stazioni periferiche, San Ruffillo, Corticella e Borgo Panigale. Lioce e Galesi andarono a Corticella, presero il treno per Ferrara e da lì, dopo aver trascorso la notte, presero quello per Roma. Banelli e Morandi andarono invece a Porretta e da lì, visto che non c’erano più coincidenze per Pistoia presero un taxi per la città toscana (curiosamente il taxista si è ricordato di Bannelli ma non di Morandi). Il Peugeot verde scuro usato per l’omicidio venne poi abbandonato a Bologna. Ma a Bologna avevano anche un altro Peugeot, di scorta, che poi venne riportato successivamente a Firenze. E per l’operazione servì anche una Vespa 50. Venne lasciata tra Via Irnerio e via del Borgo, a circa 500 metri da via Valdonica. Nel cassettino dello scooter i vari brigatisti che avevano partecipato all’azione depositarono le radio, i telefonini e le armi usate per arrivare all’omicidio di Biagi. Poi Galesi e Lioce portarono tutto a Roma. La Vespa, invece, qualche tempo dopo venne riportata verso la Toscana, ma si guastò a Vergato sull’Appennino bolognese. La recuperarono successivamente. Vennero utilizzate anche cinque bici. Lioce e Banelli tornarono a Bologna in aprile per recuperarne due. Banelli ne utilizzò anche a Firenze per l’attentato a «Obiettivo lavoro», poi le venne rubata. La Vespa, probabilmente, servì per la rapina, sempre a Firenze, di via Torcicoda.

Basi a Bologna non c’erano. «Non abbiamo elementi per sostenere il contario», ha detto un investigatore. Tra l’altro il percorso di ritorno da Bologna Banelli e Morandi lo fecero anche una settimana prima: il 12, quando era stato fissato in un primo tempo l’attentato a Biagi, che poi slittò perché la rivendicazione non era ancora pronta. Inizialmente le Br volevano fare un comunicato breve, poi successivamente quello esteso. Ma alla fine decisero di far slittare di una settimana per avere da subito il comunicato completo. Galesi si fece trovare a Bologna e disse che c’era il rinvio. La compagna So tornò in Toscana prendendo un treno dalla stazione di San Ruffillo per Firenze. Morandi andò via con Simone Beccaccini, un altro dei Br arrestati, che lo era venuto a prendere in auto. L’auto sulla via del ritorno venne fermata dai Carabinieri, e per questo il 19 marzo decisero di tornare via Porretta-Pistoia. Ed è Morandi che con un altro compagno andò anche a Modena l’università, sempre per mettere a punto i dettagli dell’attentato. Secondo Banelli le Br non c’entrano nulla con le telefonate di minacce che il professore ricevette nell’estate del 2001. Banelli nell’interrogatorio ha parlato anche del processo interno per “motivi disciplinari” che lei subì. Dopo l’arresto di Lioce e la morte di Galesi si mise in contatto, tramite uno degli appuntamenti strategici previsti, con Morandi per sapere cosa voleva l’organizzazione da lei. In pratica, vista la situazione, seppure sospesa si metteva a disposizione.

Nuova luce anche sugli espropriUn racconto preciso e puntuale, che in parte ha confermato la ricostruzione già fatta dagli inquirenti sulle rapine delle Br, ma che ha anche fornito nuovi spunti di indagine, a partire dal colpo a Siena il 2 dicembre ’99, attribuito da Banelli alle Br ma per il quale è stato condannato un giovane siciliano, all’identificazione di tutti i brigatisti-rapinatori, all’individuazione a Fiesole di un cosiddetto covo delle armi, poi dismesso, magari facendo un sopralluogo con la stessa compagna «So». Cinzia Banelli, la brigatista che ha deciso ad agosto di collaborare con la procura di Roma, il 9 settembre è stata interrogata anche dai magistrati fiorentini, che si occupano del filone degli «espropri» alle Poste messi a segno dalle Br in Toscana. Ad interrogarla, per circa cinque ore, il procuratore aggiunto Francesco Fleury e il pm Giuseppe Nicolosi. Con loro il dirigente della digos fiorentina Gianfranco Bernabei.

Cinzia Banelli ha spiegato che, come gli altri militanti, aveva per sicurezza un doppio nome, uno di battaglia, «Sonia» ovvero «So», uno operativo, per le azioni, che era «Barbara», indicando anche i doppi nomi dei brigatisti da lei conosciuti, sei o sette persone. Ha riferito che del “coordinamento” toscano delle Br facevano parte, oltre a lei e Morandi, anche Bruno Di Giovannangelo e un quarto militante su cui fornisce indicazioni, non l’identità. Per gli inquirenti potrebbe essere Simone Boccaccini, di cui però Cinza Banelli non ha fatto il nome. La donna ha poi ribadito che la trasferta ad Arezzo il 2 marzo 2003 di Lioce e Galesi era per una riunione con Morandi e un altro militante non toscano, finalizzata, ha spiegato, per un allargamento della sede centrale delle Br. Banelli lo aveva saputo dallo stesso Morandi che, con l’altro militante, si accingeva ad entrare nella sede centrale.

Cinzia Banelli ha poi dato indicazioni sui commandi che effettuarono le rapine, chiamando in causa anche i nomi di battaglia di un brigatista romano e di uno toscano, di cui non conosce l’identità, coinvolti nella rapina del dicembre ’99 a Siena. Non è chiaro se si tratti di persone già arrestate. Il militante toscano avrebbe partecipato anche alle altre tre rapine compiute in Toscana: quella nel pisano ad un furgone postale, il 13 maggio 1998, e le due a Firenze, alle Poste di via Tozzetti, il 5 dicembre 2002, e di via Torcicoda, il 6 febbraio 2003. Per quest’ultima Cinzia Banelli, presente a tutte le altre, partecipò solo alla fase preparatoria. Sul covo delle armi a Fiesole, ovvero sul luogo dove sarebbe stata sotterrata almeno una pistola, dismesso sembra nel 2000, comunque prima delle rapine a Firenze, Cinzia Banelli ha spiegato che saprebbe riconoscerlo. Non ha fornito però un’indicazione precisa: gli inquirenti stanno valutando se effettuare con lei un sopralluogo.

Le dichiarazioni di Cinzia Banelli «confermano che la nostra ricostruzione era pressoché fedele a quelli che sono stati i fatti. Per noi è una piccola soddisfazione» ha detto il procuratore capo di Firenze Ubaldo Nannucci. Il pentimento di Cinzia Banelli «è l’anticamera dello sfaldamento totale» delle Br, ha detto il suo avvocato Grazia Volo al termine oggi dell’interrogatorio della compagna «So” che alla procura di Roma ha fornito anche le due password per entrare nei file del suo computer: al lavoro c’è già la digos di Roma. Gli inquirenti ritengono che la documentazione custodita in quei file possa per la maggior parte riguardare osservazioni, progetti e programmazione delle Br, non si esclude che ci possano essere indicazioni su altri possibili attentati che l’organizzazione aveva intenzione di mettere a segno.