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Palestina, Hamas dalle bombe al governo

di Romanello Cantini Poteva andare male ed è andata peggio. Le elezioni municipali degli ultimi mesi in Cisgiordania e a Gaza avevano visto un balzo di Hamas e i sondaggi per le elezioni politiche davano ancora Al Fatah vincente seppure tallonato da vicino dalla organizzazione estremistica.

Le elezioni del 25 gennaio hanno dato, invece, ad Hamas una schiacciante maggioranza assoluta. Al Fatah è stato non solo sconfitto ma anche umiliato. È un cataclisma politico che tronca non un’esperienza di governo, ma un’epoca storica: da quasi quarant’anni, infatti, Al Fatah ha rappresentato i palestinesi dentro e fuori i loro territori. Ad un’era povera di risultati ne succede un’altra disillusa dalla speranza. A sottolineare la frattura profonda ci sono quasi in contemporanea il coma fisico di Sharon e il coma politico di Abu Mazen, i due interlocutori di ieri. Al loro posto balzano sulla scena da una parte e dall’altra uomini pescati da un ignoto quasi assoluto.

I palestinesi hanno dato la maggioranza ad Hamas, che ha ancora nella sua carta il proposito di distruggere Israele; che molto spesso immagina una Palestina tutta intera sottoposta alla legge coranica; che negli ultimi anni ha rivendicato almeno venti attentati suicidi contro gli israeliani.

Su questo risultato clamoroso ha influito il discredito crescente di Al Fatah, macchiato dalla corruzione e dalle lotte intestine sfociate, addirittura, in sparatorie fra gruppi armati nelle strade. Ha pesato anche la fitta rete capillare di Hamas, fatta di iniziative assistenziali che vanno dalla sanità alla scuola, soprattutto in un periodo, in cui i palestinesi sono sempre più in una povertà avvilente e angariata dalla perdita del lavoro, dalla riduzione della libertà di movimento, dalla repressione nei territori. Paradossalmente anche il ritiro israeliano da Gaza senza passare per una trattativa diretta con i palestinesi è stato fatto passare come un atto dettato dalla paura e non dalla generosità e, quindi, come la prima vittoria di Hamas, che rende ai coloni ebraici la vita impossibile con gli attentati e le intimidazioni.Sembra piuttosto scontato il fatto che Hamas non sia poi così compatta all’interno come sembra. Ma anche coloro che passano come i meno estremisti arrivano solo ad ammettere sottovoce, che per il momento ci si ripromette di liberare la Cisgiordania senza porre il problema della restante presenza ebraica in Palestina. Questa concessione, senza il pregiudiziale riconoscimento di Israele, somiglia troppo ad una eliminazione a tappe della presenza del nemico. Da parte degli israeliani, sarà difficile accettare un ritiro che, senza contropartita, appare solo la premessa per un assedio più stretto.Non si può, tuttavia, dimenticare che la storia del conflitto in Medio Oriente è, come altre, fatta di estremisti ammorbiditi dal tempo e dalla realtà. Fino a trenta anni fa anche Al Fatah manteneva nel suo Statuto l’obiettivo di cancellare Israele. Lo stesso Abu Mazen fu, trentaquattro anni or sono, fra gli organizzatori del sequestro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco. Ogni movimento terroristico nel mondo è stato alla fine rintuzzato non perché eliminato ma perché addomesticato e, perfino, in qualche modo, compreso.

Tuttavia, viene da tremare all’idea, che si debba ancora aspettare trenta anni perché si torni a dialogare di nuovo in Medio Oriente. Le elezioni in Palestina offrono un quadro finora mai visto di una organizzazione terroristica che, come partito, diventa forza esclusiva di governo. In questo scenario ogni attentato può essere visto non solo come un atto terroristico di un singolo, ma come un atto di guerra di uno Stato. Forse proprio per questa consapevolezza per cui un maggiore potere presuppone anche una maggiore responsabilità, gli esponenti di Hamas hanno già precisato che intendono prolungare la tregua iniziata un anno fa. È solo un piccolissimo spiraglio, da cui ci si può augurare, in tempi non lontani, anche l’accettazione del rifiuto della violenza da parte dei vincitori di oggi.

C’è addirittura un problema più generale, per cui l’estremismo islamico sembra per primo profittare di una maggiore democrazia come ha dimostrato la vittoria di Ahmadinejad in Iran, il successo elettorale degli hezbollah in Libano e dei fratelli musulmani in Egitto. Primo compito di chi ha a cuore il problema della pace nel Medio Oriente è ora premere politicamente nei confronti di questi fondamentalismi senza dimenticare fra l’altro che la loro influenza è il risultato anche di una potenza economica a cui ha contribuito il mondo arabo e, fino all’anno scorso, la stessa Unione europea.Dall’Archivio

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