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Iraq, tre anni dopo: il bilancio della Chiesa

DI PATRIZIA CAIFFAUn clima di insicurezza che “semina il terrore e ha trasformato l’Iraq in un inferno”. A tre anni dall’inizio della guerra in Iraq anche la Chiesa irachena traccia un bilancio della situazione e indica alcune vie possibili per riportare la pace e la stabilità. Abbiamo incontrato alcuni vescovi iracheni a Roma, a margine di un convegno di Caritas Internationalis sull’emergenza in Iraq, che hanno espresso le loro opinioni e raccontato anche delicate vicende personali.

UN GOVERNO FORTE E STABILE. “Governo stabile, chiusura delle frontiere per evitare che entrino altri terroristi, cibo e infrastrutture per tutti, togliere le armi ai civili”. E, nel momento in cui ci fosse un “governo forte e stabile”, ritiro delle truppe straniere. “Li ringrazieremo per averci portato il cambiamento ma noi desideriamo la pace, che in questo momento non c’è. Questo clima di insicurezza semina il terrore e l’Iraq è diventato un inferno”. Queste sono, secondo mons. SHLEMON WARDUNI, vescovo ausiliare del Patriarcato caldeo, le priorità che ritiene necessarie per riportare la pace in Iraq: “Noi vogliamo vivere, ma per vivere abbiamo bisogno di pace. Vogliamo vedere uno spiraglio di luce verso la pace e la tranquillità del popolo iracheno, perché questo dovrebbe essere l’obiettivo di tutte le truppe occupanti. Dovrebbero lavorare sul serio per la pace e per il bene degli iracheni. Quando usciamo di casa non sappiamo se torneremo perché ci sono le autobombe, i kamikaze, i sequestri, le macchine della sicurezza controllate a vista. Io stesso ho rischiato di morire per colpi di arma da fuoco. Ecco perché aumentano le tensioni tra sciiti e sunniti, e le chiese e le moschee vengono bombardate”. Mons. Warduni ricorda che “cristiani e musulmani emigrano a causa della situazione generale. Dove non si è sicuri di vivere si fugge”.

FORMARE I GIOVANI ALLA PACE. Per mons. JEAN BENJAMIN SLEIMAN, vescovo latino di Baghdad e Commissario plenipotenziario, “oggi il problema strategico è la ricostruzione della pace, e in questo senso la cosa più importante è la formazione della gioventù, bambini compresi, sia tra i cristiani sia tra i musulmani”. Una pace, sottolinea, “che va riconquistata soprattutto interiormente”: “Vorremmo che la Caritas fosse anche uno spazio di incontro, formazione e approfondimento dei valori cristiani e umani”.

“I giovani in Iraq non hanno mai avuto posto – spiega -. Le famiglie fanno il possibile per educarli ma il sistema dominante non lasciava loro spazio. O si è bambini o si è adulti, come se la gioventù non esistesse. Per cui oggi occorre creare dei centri dove i giovani possano incontrarsi tra loro, esprimersi e recepire un patrimonio attraverso l’ascolto”.

La situazione politica, “molto complessa, riflette le grandi divisioni della società stessa – osserva -. È una società molto tradizionale che vuole vestire istituzioni moderne, all’interno di scontri politici internazionali. Alla fine sicuramente si troverà un compromesso, che non è detto sia una cosa buona. Bisogna aspettare e vedere. Certo se si farà un governo di unione nazionale le cose potrebbero andare meglio, ma non credo sarà possibile risolvere tutto magicamente”.

STORIA DI UN SEQUESTRO. Mons. BASILIOS GEORGES CASMOUSSA, arcivescovo siriano di Mossoul, ricorda che nel Paese “la presenza americana è vista come una forza d’occupazione e si dice che contribuisca al clima di insicurezza”. “Se gli americani sono venuti per aiutarci a ritrovare la pace e la libertà – afferma – devono assistere e rafforzare le istituzioni, compreso l’esercito, darci un governo stabile e la sicurezza. È necessario che dichiarino un programma per il ritiro delle truppe. Se tranquillizzeranno la popolazione facendo presenti le tappe di questo ritiro, la gente ritroverà la fiducia”.

Mons. Casmoussa, che subì un sequestro nel gennaio 2005 ma venne liberato dopo pochi giorni, racconta la sua drammatica esperienza: “È stata inaspettata. Sono stato minacciato di morte, mi ero rimesso alla volontà di Dio e attendevo il peggio. Ho chiesto al Signore di rimanere tranquillo fino alla fine e che la sua volontà fosse fatta. Grazie a Dio sono stato liberato. Credo che la mia liberazione sia stata dovuta alla forte preghiera e all’appello di Giovanni Paolo II”. “Quando i rapitori mi chiesero se volevo dire qualcosa di speciale ai miei parenti prima di morire – racconta ancora – chiesi di poter pregare. Il mio testamento sarebbe stato: Offro la mia vita per la pace in Iraq e perché i cristiani e i musulmani, mano nella mano, costruiscano il Paese, perché questo popolo ha il diritto di vivere. La nostra vita deve finire in qualche modo, in quel momento volevo che la mia vita finisse con le mie convinzioni e la mia fede. Il resto spettava al buon Dio. Oggi non ho cambiato nulla della mia vita, continuo a vivere come vescovo, con le visite ai fedeli, le celebrazioni. Sono solo un po’ più prudente, ma con una prudenza che non mi impedisce di agire. La mia sicurezza è la sicurezza del mio popolo”.

Iraq, tre anni di una guerra senza fine e senza un fine