Italia
«Terra Futura», bilancio da record
Biggeri, i numeri di questa terza edizione sono indiscutibilmente da «Guinness dei primati». Ma volendo sintetizzare tutto in poche parole, cosa ci lascia questa terza edizione?
«La cosa che mi ha colpito di più è stata proprio la partecipazione agli eventi culturali, ai dibattiti, ai seminari, ai workshop: tanta gente è venuta non solo per gli stand, ma consapevolmente, con la voglia di discutere, di parlare. È un pubblico maturo, che fa di questi temi non folclore ma oggetto di ragionamento, di approfondimento. E poi, c’è da dire che Terra Futura è un evento costruito a partire dai suoi 390 espositori, tra i quali ci sono anche tantissime piccole realtà che credono nella fiera e in quello che la fiera presenta e per questo si danno da fare, trasmettendo entusiasmo: è la somma di tante realtà diverse. E se oggi o domani mi dicessero di portarla da un’altra parte, il dubbio che avrei non tanto è sui soldi che occorrono, ma proprio sul legame, sul tessuto relazionale che la fiera ha costituito, una cosa davvero bella per un evento fieristico».
Le partnership si sono allargate: quest’anno è cresciuto anche il coinvolgimento cattolico con la partecipazione della Caritas, oltre che della Cisl, insieme a Legambiente, Arci e Fiera delle Utopie Concrete…
«Per quanto riguarda la Caritas c’era stata già una partecipazione informale della delegazione regionale toscana lo scorso anno e quest’anno c’è stato il coinvolgimento esplicito della Caritas nazionale. Mi ha sorpreso piacevolmente e credo che sia una presenza molto significativa, anche perché rompe un poco gli schemi e dimostra che su questi temi c’è una convergenza di mondi che hanno storie diverse ma che convergono sull’attenzione da dare alle grandi problematiche sociali e ambientali di oggi. Poi magari le soluzioni sono diverse e su tante cose ci si può non trovare d’accordo, ma certamente rispetto al passato c’è un’avvicinamento o quantomento un sincero rispetto, come ha dimostrato anche la presenza all’interno di Terra Futura, fin dal primo anno, di uno specifico spazio per la spiritualità e il dialogo interreligioso».
Ci sono state poi testimonianze significative, come quella di suor Patricia Wolf, direttore del Centro interreligioso sulla responsabilità sociale…
«Sì, il Centro che lei dirige è una coalizione internazionale di 275 investitori cristiani ed ebraici che usano i loro patrimoni per votare ogni anno più di 100 risoluzioni di carattere sociale e ambientale nelle assemblee degli azionisti delle maggiori imprese americane. Può sembrare curioso che una cosa del genere venga proprio da un ambito religioso, ma storicamente è così. A parte l’esperienza di suor Patricia, infatti, anche altre esperienze che operano nel campo della finanza sono nate all’interno del cristianesimo. È un modo moderno di interpretarlo ed è chiaro che viene dal mondo anglosassone perché lì c’è molta abitudine a utilizzare i fondi e quindi le azioni. In Italia siamo abbastanza neofiti del mercato azionario, lo gestiamo in maniera troppo emozionale, mentre nel mondo anglosassone è normale l’idea di utilizzare appieno le regole che ci sono e quindi di andarle a sfruttare prendendo azioni delle compagnie che si vogliono, magari, criticare in modo di portare la critica all’interno delle assemblee quando non addirittura dei consigli di amministrazione».
La personalità di punta è stata però certamente Vandana Shiva, pioniera e maggior teorica dell’ecologia sociale…
«È vero, quella di Vandana Shiva è stata una delle testimonianze più apprezzate in assoluto, anche perché lei fa un ragionamento interessante a tutto campo, sia su tutte le questioni legate alla genetica, sia a quelle legate alla povertà, ai diritti delle persone, alle risorse. Però non le affronta in maniera ideologica: le affronta con un vissuto e anche con l’orgoglio di una nazione come l’India con millenni di storia alle spalle. Le ho chiesto ad esempio cosa pensa sulla crescita dei consumi nel suo Paese e lei mi ha risposto che è lo stesso sistema occidentale, attraverso le classi ormai occidentalizzate dell’India, a forzare il Paese in questo senso, perché l’80% degli indiani, 800 milioni di persone, hanno un modello culturale e spirituale eccetera che non presuppone la crescita. Certo, riconosceva anche i difetti del sistema delle caste, ma non c’è dubbio che dal punto di vista dell’uso sostenibile della terra loro sono un pezzo avanti rispetto alla nostra civiltà».
«Terra Futura» ha però voluto mettere al centro soprattutto le «buone pratiche», come dire che più che dai progetti c’è da imparare dalle esperienze in atto. Può essere un richiamo concreto alla politica dopo le parole della campagna elettorale?
«Il discorso delle buone pratiche è stato scelto perché, quando vogliono fare incontrare mondi diversi su questi temi, bisogna stare attenti a non scadere nel buonismo o affrontare le cose superficialmente. È chiaro che ci sono delle differenze, come dicevo prima, anche tra gli stessi partner che promuovono Terra Futura. Allora, per essere costruttivi e non ideologizzare il dibattito, partire dalle buone pratiche ci è sembrata un’idea vincente. Dopodiché, le buone pratiche sono di tantissimi tipi: ne esistono a livello dei cittadini che, pur con tutte le loro contraddizioni, le cercano veramente tanto come a livello delle amministrazioni. La cosa effettivamente un po’ curiosa è che solitamente questi temi sono fuori dall’agenda politica. Proprio in questi giorni è entrata in vigore la legge delega sull’ambiente, un balzo indietro di vent’anni in tema di valutazione d’impatto ambientale, ma anche chi si propone come alternativa all’attuale governo non ha messo al centro del programma questo tipo di attenzioni. Sicuramente si può dire che l’ambientalismo ha fatto molto più strada tra la gente, e in modo trasversale, che non nella politica: le persone comuni hanno una sensibilità ambientale che è molto superiore probabilmente a quella della classe politica attuale. Vedo per esempio tanta gente che si preoccupa dell’usa e getta: negli ultimi due anni c’è stato proprio un cambiamento radicale, mentre magari certe amministrazioni continuano a fare mense usa e getta».