Italia
Coraggio, impegno e coerenza per rinnovare l’Università
Tiziano Torresi, ventiduenne di Tarquinia, ma pisano d’adozione, è iscritto al terzo anno di Scienze Politiche, e a luglio si laureerà in storia contemporanea. Presidente della Fuci di Pisa, è stato un animatore del congresso appena concluso.
Nel vostro congresso si è parlato molto di frammentazione del sapere.
«La frammentazione coinvolge in modo particolare il mondo delle scienze e pone numerosi interrogativi sulla capacità dello studioso di oggi di dare un senso al proprio agire e sull’utilità dei saperi di tipo speculativo. L’obiettivo primario del nostro sistema educativo dovrebbe essere quello di insegnare a pensare, ad affrontare le grandi sfide della società, della scienza e della vita, con uno sguardo umanizzante globale e complesso, eppure capace di entrare nella specificità dei problemi».
L’aumento vertiginoso degli iscritti ha reso l’università realmente di massa. Così il rapporto tra docenti e studenti si sta allentando e l’università rischia di trasformarsi in semplice luogo di passaggio.
«L’incremento esponenziale del numero di iscritti rende di fatto impossibile l’antico modello di università quale comunità di studenti e di discenti. Le università italiane odierne somigliano infatti a piccole città, in cui sembrano regnare indifferenza e individualismo e in cui sopravvivono solo ristrette comunità omogenee. Ma l’idea di una comunità universitaria può rappresentare ancora una tensione in cui combinare integrazione culturale e testimonianza cristiana».
Qual è il ruolo che la Fuci intende ritagliarsi all’interno dell’università che cambia?
«Se è cambiata l’università, possiamo facilmente dedurre che sia cambiata anche la Fuci. Nostro compito è innanzitutto recuperare la cultura della prossimità, sempre più indispensabile per affrontare lo smarrimento e la crescente complessità della realtà degli atenei. Siamo convinti che l’università possa essere ancora oggi il luogo in cui impariamo a pensare e a maturare quegli strumenti che sono indispensabili per diventare pienamente cittadini e pienamente cristiani. Inoltre, crediamo che l’atteggiamento migliore per affacciarci alla novità sia quello di riformulare, seppur in un contesto radicalmente mutato, lo stile centenario della mediazione culturale che sentiamo tipicamente nostro».
Oltre al mondo studentesco in senso stretto la Fuci sembra comunque interessata anche a ciò che accade agli studenti quando escono dalle università. Nel congresso e nell’assemblea di questi giorni, spesso i relatori si sono chiesti quali reali possibilità offre la formazione universitaria e quali sono le occupazioni e perché no? le retribuzioni dei laureati. Non a caso uno dei termini usati più spesso è stato: precarietà.
«In effetti, a un anno dalla laurea, solo 39 laureati su cento hanno un contratto che assicuri un’occupazione stabile. Per gli altri esistono diverse possibilità, tra cui anche il contratto atipico, che è in crescita, e a un anno dalla laurea interessa il 48,5% dei giovani. La retribuzione: i laureati occupati a un anno dalla laurea non hanno uno stipendio particolarmente elevato… in media quasi 1.000 euro».
Non solo il mercato del lavoro sembra a volte poco aperto nei confronti dei laureati; anche la ricerca, sia universitaria che privata, sembra poco recettiva.
«Questo è un dato che sicuramente preoccupa: solo lo 0.9 % del pil italiano viene investito in ricerca. Anche per i non addetti ai lavori, la cifra sembra bassa, ma un confronto con gli altri paesi dell’Ue conferma come essa sia addirittura irrisoria se confrontata al 4.5 % della Svezia, al 2.5 % di Danimarca e Germania, o anche al 2 % per Belgio e Francia. Passando dai soldi alle persone, il numero dei ricercatori italiani è la metà di quello medio a livello continentale. Per giunta, i nostri studiosi sono tra i più vecchi e i meno retribuiti. Eppure, lavorano molto e bene: nel confronto europeo, non sfiguriamo per numeri di brevetti e pubblicazioni».
Finiamo con una nota personale: un momento da ricordare di questi giorni congressuali.
«Ne vorrei ricordare due. La messa in Duomo con gli imperativi che ci ha rivolto l’arcivescovo Alessandro Plotti: coraggio, impegno, coerenza, e l’invito di don Severino Dianich a fare bene le cose, nello studio e nella vita».
Il congresso ha approvato quasi all’unanimità un documento in cui la Fuci si dichiara contraria alla riforma costituzionale recentemente approvata, e molto vivace è stata la tavola rotonda moderata dal giornalista Rai Paolo Giuntella, cui hanno partecipato Andrea Cammelli (Almalaurea), Luigi Donato (Cnr), e Claudio Gentili (Confindustria). Un dato che ha accomunato tutti gli interventi è una descrizione spesso impietosa della condizione attuale dell’università italiana, unita all’ottimismo per una situazione che può, e deve, migliorare. Due dati, in primo luogo: nelle classifiche mondiali, quanto a numero di laureati, l’Italia avanza di poco la Turchia ma è dietro al Messico, un paese comunemente considerato tra quelli in via di sviluppo. Quanto a spesa per la ricerca, poi, siamo tra gli ultimi in Europa e persino nel mondo.
Gentili, con una semplificazione efficace, ha ricordato come negli anni ’30 in Italia si producessero annualmente migliaia di aeroplani, mentre adesso se ne producono soltanto dodici; come negli anni ’50 al centro della produzione mondiale ci fosse la chimica italiana, che adesso è in posizione residuale; come l’Olivetti pur senza volerla sfruttare fosse in possesso negli anni ’70 della tecnologia per produrre il primo personal computer, mentre adesso siamo soltanto consumatori di tecnologia altrui. Qual è la soluzione? Superare le corporazioni, evitare di elargire piccoli finanziamenti «a pioggia», fare scelte precise, mirate. E smetterla con le battaglie di retroguardia, come la difesa dell’ormai antiquato settore tessile nella battaglia con la Cina o l’India, persa in partenza, per concentrasi sull’innovazione e le nuove tecnologie. La quantità di denaro pubblico e privato spesa in ricerca dai paesi scandinavi ha prodotto la Nokia, che ora occupa migliaia di addetti nella produzione di telefoni che noi sappiamo soltanto comprare.