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L’11 settembre, 5 anni dopo

di Pier Antonio GrazianiNella premessa che gli avvenimenti letti secondo schemi ideologici che ritmano la storia sui loro spartiti (si tratti delle ideologie compiute come la marxista o la liberista, o delle alchimie politologiche), in genere finiscono nel non far capire cosa riservi la storia che ci passa accanto né gli avvenimenti che vi si succedono irriguardosi, quel che è capitato a New York l’11 settembre di cinque anni fa, in questo senso, è una delle improvvisate della storia che capitano laddove non si pensavano possibili: convinzione diffusa sino a quel momento era stata che i problemi del terrorismo, anche quelli che investivano gli americani, si sarebbero sempre affrontati lontano da casa. La fortezza era inattaccabile: la missilistica, il controllo satellitare, la tecnologia militare più varia ed avanzata avrebbero, se mai, fatto scorrere ai bordi attentati e guerre. Gli avvenimenti di cinque anni fa hanno smobilitato questa convinzione? La risposta è positiva se si pensa alle contromisure adottate, che vanno dal grande orecchio delle intercettazioni, anche se contraddicono il sistema di libertà individuali sintetizzato nella privacy fiore all’occhiello della democrazia americana, alla consapevolezza che il terrorismo può penetrare dappertutto.

Se si dovesse invece rispondere alla domanda se la politica si sia dimostrata e si dimostri adeguata dovremmo sottolineare l’assunto di partenza, così traducibile: gli schemi ideologici, del tipo Islam uguale guerra santa, che hanno avuto eco in buona parte dell’occidente hanno alimentato il semplicismo della reazione militare della guerra preventiva che sostituisce la strategia meno pericolosa del «contenimento».

Né la molla ideologica né la guerra punitiva (l’Afghanistan) né quella preventiva (l’Iraq) sono riuscite a scalfire il potenziale terroristico.

Non si parla più di Bin Laden che il governo afgano non volle consegnare agli americani dopo l’11 settembre (ammesso avesse potuto farlo). Bin Laden resta uccel di bosco, meglio non parlarne. La guerra di impulso per lavare l’onta personalizzata in Bin Laden dell’11 settembre ha liberato l’Afghanistan dai tetri talebani e le donne afgane dalla loro oppressione ma ha anche restituito il Paese ai signori della guerra e alla coltivazione dell’oppio che il puritanesimo talebano aveva estirpato. Cosicché 1’80 per cento di produzione mondiale d’eroina finanzia le sparse milizie che controllano il grosso del Paese.

Fa riflettere leggere su «30 Giorni», la rivista diretta da Giulio Andreotti, un’intervista a Pino Arlacchi, già direttore dell’ufficio dell’Onu per la lotta al narcotraffico che (testuale) «se non ci fosse stato l’11 settembre oggi l’Afganistan sarebbe fuori dal narcotraffico e non sarebbe invece il primo produttore al mondo illegale d’oppio».

L’azione militare dunque riuscì ma è pagata a caro prezzo e inchioda sul terreno la presenza di truppe straniere per mantenere quel poco di unità territoriale possibile che i signori della guerra consentono. Ancora più disastrosa appare da anni, dopo il trionfalismo di Bush della «missione compiuta», la situazione dell’Iraq della strage giornaliera. La prevenzione si è ribaltata ed è diventata terrorismo diffuso e incontrollabile.

Se tutto questo appartiene alla constatazione di fatti resta comunque il problema di come difendersi dal terrorismo. Un problema vero che non ha tuttavia soluzioni obbligate. Al momento è solo certo che la tecnologia militare e l’uso della forza lasciate a sé fanno cilecca e finiscono con lo sfigurare, come a Guantanamo, gli stessi connotati dei diritti umani predicati. Qualcosa di nuovo è forse intravedibile, sia pure allo stato embrionale nella vicenda del Libano: 1’America per la prima volta pare dimostrarsi bisognosa di un aiuto europeo per cercar di risolvere un problema in Medio Oriente di cui finora ha tenuto a mantenere l’esclusiva fidando sulla sua forza. Non è, anche questa, una ricetta miracolosa per sconfiggere terrorismi di guerriglieri e di stato in Medio Oriente e altrove ma può essere, se sviluppata, il punto di partenza di una nuova consapevolezza: l’intelligenza politica può essere più efficace delle armi. E che sia l’Europa, Italia e Francia in testa, a giocare un ruolo di primo piano in Libano potrebbe essere l’inizio di un equilibrio occidentale di cui hanno bisogno le due sponde dell’Atlantico non solo per il Medio Oriente: l’America che si è dichiarata «marte» nella politologia ossequiente ed anche l’Europa considerata negli stessi ambienti lasciva «venere».

«No alla paura». Appello delle religioniA margine dell’incontro interreligioso che si è svolto in questi giorni ad Assisi, il «Sir» ha chiesto ad esponenti delle tre fedi monoteiste delle riflessioni a cinque anni dall’11 settembre. Ne abbiamo parlato con il card. Paul Poupard, presidente dei Pontifici Consigli della cultura e del dialogo interreligioso, con Enzo Bianchi, priore di Bose, con Jean-Arnold De Clermont, presidente della Conferenza delle Chiese d’Europa, con Giuseppe Laras, presidente dei rabbini d’Italia, con Mohammed Esslimani, teologo musulmano in Algeria.

UNA CONSAPEVOLEZZA NUOVA. «Di fronte a tante tragedie – ha detto il card. Paul Poupard – bisogna ripartire da una giornata come quella vissuta qui ad Assisi, tra uomini e donne di religioni e culture diverse. Infatti, in occasioni come queste nasce, negli esponenti di religioni e della cultura laica, una consapevolezza nuova della comune appartenenza alla fraternità umana». Dai convegni nello Spirito di Assisi, dunque, «emerge la necessità di fare tutto il possibile per incontrarci, scoprirci a vicenda. E le ragioni dell’incontro possono essere trovate nelle radici della propria religione e cultura: fondamenti di questa convivenza pacifica per costruire insieme la civiltà dell’amore per tutti gli uomini di buona volontà».

A cinque anni dall’11 settembre, ha aggiunto il card. Poupard, «il messaggio di Benedetto XVI ad Assisi 2006 è di portata storica, proprio perché il Papa ha rinnovato l’impegno preso dal suo predecessore Giovanni Paolo II, venti anni or sono, in favore del dialogo, con nuovo vigore, definendolo di necessità vitale». Qui ad Assisi, ha riflettuto il card. Poupard, «è di grande importanza lo spirito di preghiera, un compito faticoso che richiede forze giovani. Pertanto il lavoro in questa direzione dei Pontifici Consigli della cultura e del dialogo interreligioso continua con i prossimi incontri».

LA PACE SI ALLONTANA. «A cinque anni dall’11 settembre – ha dichiarato Enzo Bianchi – si fa sempre più profetica la parola di Giovanni Paolo II, che diceva di non rispondere con la violenza anche di fronte alle provocazioni gravi come quella del terrorismo». Purtroppo, però, ha proseguito il priore di Bose, «gli scontri sono cresciuti di fatto in tutto il Medio Oriente.

E quella guerra che è stata aperta non solo non è conclusa, ma la ferita si allarga e cresce». «Papa Benedetto XVI – ha sottolineato infine Enzo Bianchi – ha ripreso lo stesso magistero del predecessore, con parole molto forti nei confronti delle guerre. Tuttavia, finché non c’e ascolto da parte dei potenti, la guerra crescerà e la pace sarà più lontana».

LA CAPACITÀ DI NEGOZIARE. «Da subito – ha detto Jean-Arnold De Clermont riferendosi all’11 settembre – ho temuto ed ho effettivamente visto l’Occidente chiudersi in se stesso per la paura. E questo, cinque anni dopo, è quello che è avvenuto: il dominio della paura». «Tuttavia – ha ripreso il presidente delle Chiese evangeliche – partecipare agli incontri nello Spirito di Assisi significa coltivare la capacità di negoziato: un elemento prioritario, anche per approfondire meglio la nostra identità».

CONTINUARE A SPERARE. «Pensare all’11 settembre oggi ad Assisi, luogo in cui ci si trova per elaborare sempre nuove strategie di pace – ha detto il rabbino Giuseppe Laras – potrebbe sembrare paradossale, ma non lo è, perché qui è familiare il principio della speranza. Gli uomini di religione vivono questo paradosso non come sinonimo di impossibilità, ma come via di una pace concreta. Non ci scoraggiamo, ma continuiamo a coltivare questa pianta». Attraverso la preghiera, ha continuato Laras, «guardiamo a Dio, e cerchiamo in noi la forza di essere convincenti, nelle forze migliori della nostra anima e della nostra ragione. Essere qui in tanti rappresentanti di religioni e Paesi diversi assume un valore simbolico molto importante. Occorre trovare universalmente il modo di convergere, superando questo presente contingente e la triste memoria dell’11 settembre».

ASPIRAZIONE ALLA DEMOCRAZIA «La risposta urgente da dare alla storia, che sta seguendo l’11 settembre, è – per Mohammed Esslimani – una triade da realizzare: la libertà, la giustizia e la pace, che sono inscindibilmenteunite. Sono sia islamici sia cristiani i giovani orientali – ha ricordato il professore universitario – consapevolmente uniti da un unico destino e rischiosamente in fermento come la lava di un vulcano inattivo. In questo l’Occidente può fare molto, senza esitazioni: è indispensabile il suo intervento per colmare l’aspirazione dei giovani alla democrazia».a cura di Lia Mancini

Il Papa invoca la «pedagogia della pace»

ASSISI, DIALOGO INTERRELIGIOSO, IL TESTO INTEGRALE DELL’APPELLO DI PACE