Italia
Paul Polak, l’inventore dei poveri
di Sara D’Oriano
Sguardo curioso e vispo, una simpatica cravatta blu elettrico. Così il «filantropo» canadese, di origine ceca, Paul Polak (nella foto) ha ricevuto il 29 maggio scorso a Firenze il premio «Monito del Giardino», promosso dalla Fondazione Giardini Bardini e Peyron in collaborazione con l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze.
«Esempio di sensibilità e concretezza umana e scientifica, volte a migliorare la qualità di vita delle popolazioni svantaggiate», questa la motivazione con cui Polak ha ricevuto, nella Villa Bardini, il primo premio internazionale nato con lo scopo di valorizzare chi contribuisce alla conservazione e alla salvaguardia del paesaggio e, in genere, del patrimonio ambientale.
Oltre a lui, hanno ricevuto il premio anche Giulia Maria Crespi, presidente del Fondo per l’ambiente italiano, per aver salvato dall’abbandono e dal degrado centinaia di beni monumentali e ambientali, Giovanni Sartori, politologo, che da anni conduce una «vibrante» campagna ecologista e Paolo Galeotti, agronomo, che offre «da sempre un suo inestimabile contributo all’arte del paesaggio legando ricerca scientifica, estetica e cura dei giardini medicei». Settantenne, psichiatra e imprenditore, fondatore di IDE (International development enterprises), associazione no-profit attiva in diversi paesi in via di sviluppo, Polak si occupa da 25 anni di sviluppare tecnologie a basso costo e di basso impatto ambientale, da impiegare nei paesi poveri per incrementare i benefici dei raccolti agricoli e così facendo, alimentare in quei paesi una ripresa economica che parte dal basso, dai piccoli agricoltori e dalle loro famiglie.
Dottor Polak, quando e come è nata l’idea di dedicare il suo lavoro alle persone svantaggiate?
«Più di 25 anni fa lavoravo negli Usa come psichiatra, occupandomi di disagio psichico. Studiando e conoscendo gli ambienti in cui i miei pazienti vivevano, mi resi conto che il contesto era una delle cause della malattia. Spesso scoprii che i miei pazienti erano persone in grosse difficoltà che coinvolgevano il lavoro, la casa, i legami affettivi. Così ho iniziato a pensare che risolvendo questi problemi, eliminando la povertà in tutti i sensi, avrei potuto anche alleviare in qualche modo la malattia. E così ho iniziato. Durante un viaggio in Bangladesh mi chiesi perché non provare ad applicare anche lì ciò che avevo sperimentato nel mio paese. Ho iniziato a conoscere le persone, ad ascoltare e capire i loro bisogni e così a immaginare, creare delle soluzioni pratiche che potessero andare bene per loro e costassero poco. Vede, non si è trattato di una ispirazione, o di una vocazione profonda, ma semplicemente di osservare, ascoltare gli altri e cercare delle soluzioni per soddisfare le loro necessità. È qualcosa di molto pratico, non ha niente a che fare con l’essere geni. Può farlo chiunque».
Che tipo di «invenzioni» ha escogitato e quali paesi utilizzano le sue tecnologie?
«Non mi piace definirle invenzioni, perché il termine può far venire in mente cose complesse e elaborate, lontane dalla portata di ognuno. In realtà di invenzione hanno ben poco, sono semplicemente frutto dell’osservazione e della creatività applicate a tecnologie già inventate in passato. Il grosso problema dei paesi in via di sviluppo è il reperimento dell’acqua, del suo immagazzinamento, dell’irrigazione dei campi e della depurazione (non dimentichiamoci che un miliardo di persone nel mondo non ha accesso all’acqua potabile). Quindi abbiamo escogitato per lo più strumenti che potessero migliorare questo aspetto: con più acqua e senza sprechi si possono ottenere raccolti migliori, il che significa maggiore produzione e miglior rendimento sul piano economico. Pompe a pedali, irrigazione a goccia che funzioni anche con poca pressione dell’acqua, depositi a basso costo e poi per il trasporto del raccolto, carretti speciali che, trainati da asini, sono in grado di portare pesi maggiori. Il tutto con costi che variano dai 25 ai 1000 dollari al massimo. Al momento la mia associazione è attiva in Myanmar, Vietnam, Cambogia, Bangladesh, India, Nepal, e in Africa in Zambia, Zimbabwe e Etiopia. Abbiamo aiutato fino ad oggi 12 milioni di persone e con il premio ricevuto oggi ne aiuteremo altre migliaia».
Come sono state accolte queste tecnologie «low cost» dalla gente che ha incontrato nei suoi viaggi?
«A dire il vero, gli specialisti con i quali mi sono imbattuto in questi anni si sono dimostrati sempre piuttosto scettici verso il mio lavoro, nonostante apprezzino l’impegno e riconoscano il valore degli strumenti. Invece i piccoli agricoltori, che sono i principali destinatari delle nostre opere, sono sempre stati molto curiosi di provarle. Penso che conti molto la praticità per comprender certe cose e in questo, le popolazioni bisognose ci battono di gran lunga. Ho trovato persone spinte da una gran voglia di apprendere, e molto interessate a provare le soluzioni che gli proponiamo. Spesso si rendono partecipi del nostro lavoro e contribuiscono, con le loro idee e i loro racconti a escogitare nuove soluzioni».
Come è possibile aiutare i paesi ricchi a comprendere l’importanza di questo progetto e a sostenerlo?
«Non punto tanto ad ottenere un impatto sui politici dei grandi stati, quanto piuttosto preferisco impegnarmi per lavorare sulle coscienze personali. I grandi temi della bio-diversità, della salvaguardia del nostro pianeta coinvolgono tutti, anche noi che facciamo parte del mondo ricco. Basta pensare che la maggior parte delle zone ambientali a rischio del pianeta si trova nei paesi più poveri, ma è inutile salvaguardare la terra se non si aiutano le persone che intorno a quella terra vivono e che soprattutto vivono di essa. È diretto interesse del mondo ricco aiutare le popolazioni bisognose, ma non attraverso la carità, quanto piuttosto fornendo loro le risorse per camminare con le proprie gambe. Questo è ciò che vorrei che passasse al mondo ricco».
Quali sono i suoi prossimi progetti?
«Ho fondato altre due associazioni con le quali continuo l’impegno in favore delle famiglie disagiate e nello stesso tempo continuo i progetti di IDE. I 30 mila euro ricevuti con il premio li utilizzerò per questi ultimi, integrandoli con gli investimenti dei poveri, trasformandoli in una risorsa per le famiglie ancora bisognose. Se va tutto bene la povertà può essere debellata entro il 2015».
Non sono progetti un po’ troppo ambiziosi?
«Sogna grande. Questo è il mio motto. L’ho imparato dai poveri, le sembrerà strano. La voglia di mettersi in gioco me la hanno insegnata loro. L’importante è essere coscienti delle proprie risorse, ma perché limitarsi, se si può pensare di cambiare davvero le cose?».