Italia

Toscana, una seconda casa per i bambini di Chernobyl

di Andrea Bernardini

In una notte della primavera del 1986, fra il 25 e 26 aprile, in uno dei quattro reattori della centrale elettronucleare di Chernobyl (Ucraina), avviene il più grave incidente della storia del nucleare civile: il cuore del reattore  sfugge dal controllo e va a fuoco. Solo il coraggioso intervento dei pompieri in servizio impedisce una catastrofe maggiore.

La dispersione nell’atmosfera di un’enorme nuvola di vapore acqueo carico di «radionuclidi», che per molti giorni fuoriusciranno dal reattore esploso, contaminerà le regioni circostanti. La nuvola diretta dal vento verso nord ed in particolare verso Mosca, verrà bombardata ed il suo carico pericoloso cadrà, per lo più, in Bielorussia, specie  nella regione di Gomel, in un’area di  250mila ettari.

Gli effetti dell’incidente saranno equiparati a quelli che avrebbero potuto produrre almeno duecento bombe atomiche come quella sganciata nel 1945 su Hiroshima. Effetti che, purtroppo, si hanno ancora oggi e che si avranno ancora per moltissimo tempo: leucemie, linfomi, tumori della tiroide, malattie del metabolismo, patologie cardio-vascolari, aborti spontanei e bambini nati con malformazioni neonatali.

Sono proprio i bambini i soggetti che più pagano sulla propria pelle il prezzo dovuto alle radiazioni, ma anche alla povertà, alla fame, alla disgregazione sociale che ne deriva. Molti di quelli che soffrono di gravi patologie sono lasciati negli istituti, e qui trascorreranno tutta la loro vita.

Altri, grazie ad un accordo di cooperazione internazionale sancito dal Ministero della sanità bielorussa con alcuni paesi esteri, sono stati operati e curati  in Germania, Stati Uniti, Giappone. Ed anche in Italia, precisamente all’ospedale «Santa Chiara» a Pisa, dove dal ’94 ad oggi sono «transitati» (e fortunatamente guariti) centotrenta bambini affetti da tumore alla tiroide: tutti trattati con radioiodio.

È il cesio 137 la sostanza radioattiva con cui i ragazzi  devono fare i conti ogni giorno. Le tracce delle sua presenza scendono considerevolmente (secondo studi Enea tra il 40 ed il 60%) se essi hanno la fortuna di soggiornare, anche solo per un mese, all’estero.

Lo sanno bene le famiglie che si sono rese disponibili ad ospitare i ragazzi di Chernobyl in Italia. Nel 2007 ben 30mila bambini bielorussi sono stati ospitati nella nostra penisola, per lo più al mare, un migliaio nella sola Toscana.

Quelli destinati al nostro Granducato, partono in aereo (generalmente con voli charter) dagli scali di Gomel o Minsk, e arrivano, generalmente, all’aereoporto «Galileo Galilei» a Pisa. Un viaggio della speranza, per una «vacanza terapeutica» organizzato da una miriade di associazioni: le Pubbliche assistenze, le Misericordie, la Caritas di Livorno, le associazioni «Pais» di Porcari o «Ira» di Lucca o «Arci ‘690» di Cascina. Pagato per intero dalle famiglie ospitanti (un viaggio di andata/ritorno costa tra i 320 ed i 350 euro) o al quale offrono il loro contributo privati o enti locali (è il caso di Forte dei Marmi, Capannoli o Cascina).

Ma è soprattutto un pastore evangelico, Giuseppe Lardieri, presidente dell’associazione «Il cammino» ad Altopascio, che fa da punto di riferimento organizzativo per i viaggi della speranza: «All’inizio – dice Lardieri – le famiglie possono chiedere l’affidamento del bambino per un mese. Dopo la prima esperienza, possono allargare la loro disponibilità all’accoglienza fino a tre mesi l’anno. Chiedendo di poter “stare” insieme al bambino che hanno ospitato l’anno precedente». E tutto questo fino al diciottesimo anno di età. Da allora in poi, «un maggiorenne che vorrà venire in Toscana per trascorrere un periodo con una famiglia, dovrà chiedere un permesso turistico».

Cosa spinge una famiglia a questo gesto di solidarietà? Prova a rispondere Umberto Mugnaini, presidente del centro medico «Le Querciole» a Ghezzano (che mette a disposizione per il ceck-in dei bambini appena questi mettono piede a Pisa) e volontario impegnato nell’associazione Arci ‘690: «Tra i genitori affidatari ci sono coppie che non hanno figli, e vivono questa esperienza di accoglienza come prova generale prima di chiedere ai servizi sociali l’affidamento o l’adozione di un bambino italiano o straniero; o coppie con uno o più figli naturali, che intendono sperimentare con loro il senso dell’accoglienza; vedove, o, infine, coppie che hanno perso il loro figlio naturale, e pur tuttavia non vogliono rinunciare a vivere, seppur per un breve periodo, da genitori».

E come le famiglie gestiscono la permanenza dei bambini bielorussi in Toscana? «Otto su dieci – dice il pastore evangelico Lardieri – non fanno altro che “aggregare” il bambino alle vacanze già programmate con largo anticipo. Altre si fanno aiutare dalle stesse associazioni che organizzano il viaggio».

È il caso di Andrea Pieroni, presidente dell’amministrazione provinciale di Pisa, sposato con Mariangela e padre di Iacopo ed Anna Chiara

Quali comportamenti adottare con questi cuccioli, spesso privi di tutto, che arrivano nelle nostre famiglie? Masah, 11 anni, è da quattro ospite – per tre mesi l’anno – della famiglia Vatteroni. Dice Simona, pontederese: «Cerco di gestirla come gestirei mio figlio, dandole lo stesso affetto ma anche le stesse indicazioni nel comportamento».

Barbara e Giovanni Simoncini, fiorentini, ormai da sette anni aprono la loro porta ai bambini bielorussi. «Ne abbiamo visti crescere diversi» commentano. Una tra loro, Angela, che oggi ha 23 anni, ha conosciuto il suo attuale fidanzato proprio durante uno dei soggiorni estivi. «E presto si sposeranno» fa’ Giovanni.

Danno molto di più le famiglie toscane ai bambini bielorussi o i bambini bielorussi alle famiglie toscane? «Diamo molto, ma riceviamo molto di più» osserva Manuela Martini, calcesana.

LA SCHEDA

Il disastro di Chernobyl è stato il più grave incidente nucleare della storia, l’unico al livello 7 (il massimo) della scala Ines dell’Iaea. Avvenne il 26 aprile 1986 alle ore 1:23:44 presso la centrale nucleare V.I. Lenin di Chernobyl in Ucraina vicino al confine con la Bielorussia, allora repubbliche dell’Unione Sovietica. Nel corso di un azzardato test di sicurezza, un brusco e incontrollato aumento della potenza (e quindi della temperatura) del nocciolo del reattore numero 4 della centrale causò la scissione dell’acqua di refrigerazione e l’accumulo di idrogeno a così elevate pressioni da provocare la rottura delle strutture di contenimento, il contatto dell’idrogeno e della grafite incandescente con l’aria che a sua volta innescò l’esplosione e lo scoperchiamento del reattore. Una nube di materiali radioattivi fuoriuscì dal reattore e ricadde su vaste aree intorno alla centrale che furono pesantemente contaminate, rendendo necessaria l’evacuazione e il reinsediamento in altre zone di circa 336.000 persone. Nubi radioattive raggiunsero anche l’Europa orientale, la Finlandia e la Scandinavia con livelli di contaminazione via via minori, raggiungendo anche l’Italia, la Francia, la Germania ecc. Il rapporto ufficiale redatto da agenzie dell’Onu (Oms, Unscear, Iaea e altre) stila un bilancio di 65 morti accertati con sicurezza e altri 4.000 presunti (che non sarà possibile associare direttamente al disastro) per tumori e leucemie su un arco di 80 anni.