Italia
Pillola abortiva, quelle morti di cui nessuno parla
di Andrea Bernardini
Almeno ventinove donne che hanno assunto il mifepristone, meglio conosciuto come Ru486 o pillola abortiva, sono morte. Eppure l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) sarebbe orientata ad autorizzare il commercio di questa molecola anche nel nostro Paese. L’ok definitivo potrebbe arrivare già nei prossimi giorni, o comunque quando il consiglio di amministrazione dell’Aifa riprenderà in mano la pratica. Un parere positivo del Comitato tecnico scientifico dell’Agenzia era stato formulato alla fine del febbraio del 2008. Poi su tutti gli incartamenti era calato il silenzio.
Silenzio rotto solo il 19 giugno del 2009 da «Il Sole 24 ore» che annunciava l’accordo della casa produttrice, la Exelgyn di Clermont Montferrand con l’Aifa sul prezzo del prodotto, che dovrebbe essere a buon mercato.
Per rispondere a interrogazioni piovute sulla questione, il ministero aveva chiesto all’azienda un dossier completo sul profilo di sicurezza del prodotto. Assuntina Morresi, consulente del ministero del welfare, che quel dossier l’ha studiato da noi interpellata non dice una parola di colloqui intercorsi con la ditta («non sono stata autorizzata a divulgarli»). Ma qualcuno deve pur essersi fatto sfuggire qualcosa, se l’AdnKronos, in un lancio, ha parlato di ventinove morti seguiti alla assunzione di mifepristone.
Diciassette donne, per quanto è dato di sapere, l’avrebbero ricevuto per abortire, dodici per diverse indicazioni terapeutiche. Almeno altre due donne, infine, sono decedute dopo l’assunzione di misoprostol, il secondo farmaco utilizzato nei protocolli abortivi.
Ma come agisce il coctail abortivo? Semplificando si può dire che il mifepristone toglie il nutrimento all’embrione, ma, nella maggior parte dei casi, è necessario anche un secondo prodotto, il misoprostol (prostaglandina) per espellerlo dall’utero. In quanto tempo? Difficile dirlo. Gli esperti hanno difficoltà a definire come riconoscere il successo della procedura abortiva. Tanto ché, per esser sicuro che l’aborto fosse completato, il professor Cosimo Facchini (che alle «Scotte» di Siena praticava l’aborto farmacologico) ha raccontato in passato come diverse donne siano dovute comunque passare dalla sala operatoria per il raschiamento dell’utero.
Ventinove casi di morte per un prodotto non sono pochi. Per molto meno osserva il medico pisano Renzo Puccetti, vicepresidente della locale sezione di Scienza & Vita un prodotto è stato ritirato dal mercato. Rovistando nei nostri archivi, abbiamo recuperato, ad esempio, il caso della Morupar, vaccino utilizzato per prevenire il morbillo, la rosolia e la parotite, il cui profilo di sicurezza fu giudicato inferiore ad altri equivalenti.
Non sono pochi, soprattutto se raffrontati ai nove fino ad oggi contemplati in un articolo pubblicato sul Bollettino d’informazione sui farmaci (l’«house organ» dell’Aifa) nel quarto numero del 2007. Le stesse Roccella e Morresi, alcuni anni fa, dopo una indagine giornalistica, pubblicata nel libro «La favola dell’aborto facile. Mito e realtà della Ru486» erano arrivate a «individuare» quattordici casi di morte in qualche modo collegabili alla pillola abortiva; uno studio di un gruppo interdisciplinare, pubblicato nel 2008 sull’Italian Journal of Gynaecology and Obstretics, organo ufficiale della società italiana di ginecologia ed ostetricia, si era spinto a parlare di sedici morti. A ventinove non era mai arrivato nessuno. Solo la ditta produttrice.
Le novità emerse, e una approfondita relazione sui colloqui intercorsi tra ministero ed Exelgyn, sarebbe stata inviata al Comitato tecnico scientifico del’Aifa.
Ma cosa potrebbe accadere se l’Agenzia italiana del farmaco approvasse definitivamente il protocollo della Ru486? Fino ad oggi, di là dalla sperimentazione di Torino, per ottenere il farmaco, l’azienda sanitaria doveva inviare alla ditta produttrice l’ordine di una confezione di pillola abortiva per ogni singola donna che chiedeva di abortire chimicamente. Una prassi «inventata» in Toscana, che si appoggiava su un decreto interministeriale del 1997 (erano i tempi della cura Di Bella) secondo cui, un prodotto salvavita (ma un farmaco abortivo quale vita salva?) già sperimentato con successo all’estero, anche quando non sia autorizzato al commercio in Italia, può essere richiesto ad personam direttamente alla ditta produttrice. E tutto questo laddove non esista «alternativa terapeutica». Una clausola che, secondo diversi giuristi, metteva fuori la Ru486 da questa opportunità: «se anche accettassimo di parlare di aborto come di una terapia, beh, l’alternativa all’aborto farmacologico c’è, ovvero l’aborto chirurgico» commenta l’avvocato Giuseppe Mazzotta.
Ora, dopo l’eventuale pronunciamento positivo dell’Aifa che è organo autonomo e su cui, è bene precisarlo, il Governo non può ricorrere «la Ru 486 sarebbe disponibile solo negli ospedali», dice Assuntina Morresi. «Ma poiché la maggior parte delle donne, laddove fino ad oggi si è fatto uso della pillola abortiva, sono tornate a casa dopo aver assunto il mifepristone firmando le dimissioni volontarie, di fatto una più facile disponibilità della Ru486 introdurrebbe l’aborto a domicilio, minando uno dei capisaldi della 194. L’aborto farmacologico sarebbe più facile nell’immaginario, perché si identifica, appunto, con una semplice pillola, non in concreto, perché la procedura è lunga e dolorosa, incerta. Ma tornerebbe ad essere conclude Morresi un fatto privato e ancor meno prevenibile di quanto lo sia stato fino ad oggi».