Italia
Ru 486, dietro lo stop del Senato
Sulla base dei pareri del Consiglio superiore di Sanità, la specialità Mifegyne, nota anche come pillola Ru486, può essere utilizzata per uso abortivo, in compatibilità con la legge 194, solo se l’intera procedura abortiva, e fino all’accertamento dell’avvenuta espulsione dell’embrione, sia effettuata in regime di ricovero ordinario nelle strutture sanitarie indicate dall’articolo 8 della suddetta legge. È quanto afferma il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, nella lettera-parere inviata il 27 novembre al presidente dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), Sergio Pecorelli, sulla pillola abortiva Ru486.
Il giorno seguente, 28 novembre, Pecorelli ha annunciato che il Consiglio di amministrazione dell’Aifa si sarebbe riunito entro brevissimo tempo in modo da rispondere alle indicazioni e alle richieste formulate dal governo. La nuova delibera dell’Aifa dopo quella del 30 luglio scorso, relativa all’approvazione dell’autorizzazione dell’immissione in commercio della Ru486 arriverà dopo l’accelerazione sulla controversa vicenda della pillola abortiva data dalla Commissione Sanità del Senato, che il 26 novembre ha approvato, a maggioranza, il documento finale dell’indagine conoscitiva sulla Ru486, nella quale si chiedeva di fermare la procedura di immissione in commercio della pillola abortiva in attesa di un parere tecnico del ministero della Salute sulla compatibilità tra legge 194 e Ru486. Il SIR ha rivolto alcune domande a Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani e presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica.
Cosa c’è dietro il pronunciamento del Senato?
La questione dell’introduzione in Italia della Ru486, così come si è andata evolvendo, è uno dei tasselli del dibattito che si è riaperto sulla legge 194. Da una parte ci sono coloro che vogliono, anche attraverso la Ru486, dilatare ulteriormente i criteri interpretativi della 194: una legge che, piaccia o no, considera l’aborto come un diritto insindacabile della donna, e che dunque ritiene a maggior ragione insindacabile anche la modalità abortiva che la donna predilige. La pillola Ru486, fin da principio pensata per privatizzare l’esperienza dell’aborto, è una via privilegiata per far valere questa linea interpretativa. Dall’altra parte c’è, invece, una linea più rigorosa di interpretazione della legge 194, abbracciata da coloro che non considerano l’aborto un diritto, ma una procedura estrema per salvaguardare la salute della donna. Difendere la legge 194, in questa prospettiva, significa dire che la vita va protetta fin dall’inizio e pretendere che l’aborto sia «clinicizzato», che si pratichi cioè negli ospedali pubblici o nei luoghi accreditati: sia per garantire la salute della donna, sia per garantire il rispetto delle procedure che rendono lecito e non punibile l’aborto volontario. A mio parere, la pillola potrebbe essere usata se la donna restasse in clinica tutti e tre i giorni necessari a portare a termine il processo abortivo: a queste condizioni la pillola diviene un’alternativa all’aborto chirurgico. Se invece la donna ha la possibilità di portarlo a termine in forma privata, siamo davanti a un problema bioetico grave.
È questa la linea adottata dal parere del governo?
Con il suo parere sulla Ru486, il governo ha inteso difendere la legge 194, chiedendo l’uso di rigorosi criteri già contenuti nella legge stessa, a partire dall’obbligo del ricovero ospedaliero durante tutto il trattamento.
Nei fatti, crede che sia un obiettivo raggiungibile?
Ritengo che sarà molto difficile trovare una modalità tecnica per «clinicizzare» l’uso della pillola Ru486. La grande differenza che c’è tra la Ru486 e le altre modalità di effettuare l’aborto tutte comunque da stigmatizzare è che la Ru486 privatizza l’esperienza abortiva, contro il dettato della legge italiana, che non vuole che questa esperienza sia privatizzata, ma che avvenga sotto la tutela pubblica. Tale affermazione non è di tipo morale o confessionale, ma si deduce dal nostro ordinamento, a patto che lo si voglia prendere sul serio. Se si usa la pillola Ru486 negli ospedali, è una foglia di fico il dire che la donna rimarrà ricoverata fino alla fine del processo. È ovvio che l’ospedale non è un carcere: se la donna chiede di essere dimessa, nessuno la può fermare. Cosa che non avviene con l’aborto chirurgico: o meglio può avvenire fino a cinque minuti prima, ma non a procedura già iniziata. Fermo restando la gravità e l’illiceità di ogni forma d’aborto, questo sarebbe un modo molto subdolo di aggirare la legge 194, e per di più scaricato interamente sulla donna.
Quali i correttivi possibili?
Qualora la donna che sceglie l’aborto tramite la Ru486 dichiarasse l’intenzione di tornare a casa, i medici potrebbero ad esempio stilare una dichiarazione dalla quale appaia evidente che il ritorno a casa non potrebbe garantire la tutela della propria salute. Sarebbe un deterrente per le assicurazioni sanitarie: se la donna tornasse a casa comunque e insorgessero complicazioni, nessuna assicurazione, dopo la dichiarazione dei medici, coprirebbe un tale comportamento imprudente. A questo proposito, il governo potrebbe lanciare delle linee guida: non potendo vincolare la donna a stare in ospedale, si vincolerebbe il modulo per il consenso informato.
La proposta di svolgere un’indagine conoscitiva sull’utilizzo della pillola abortiva Ru486 è stata concordata nell’Ufficio di presidenza della commissione Sanità con il consenso unanime da parte dei rappresentanti dei gruppi il 22 settembre scorso, con l’impegno di concludere i lavori entro 60 giorni dall’inizio dell’intera procedura. Titolo: Indagine conoscitiva sulla procedura di aborto farmacologico mediante mifepristone e prostaglandine percorso genericamente indicato come pillola abortiva Ru486 e valutazione della coerenza delle procedure proposte con la legislazione vigente.
L’indagine approvata dalla commissione Sanità del Senato il 26 novembre si conclude con la proposta di sospendere la procedura per l’introduzione in commercio della Ru486, per acquisire il parere del ministro competente in materia (formulato il 27 novembre, ndr), consentendo, ove si ritenga necessario, di riavviare la procedura dall’inizio. Perché l’Ivg (interruzione volontaria della gravidanza, ndr) con la Ru486 sia ricondotta all’interno delle limitazioni previste dalla normativa italiana la raccomandazione di fondo dell’indagine essa deve avvenire, in ogni sua fase, fino a completamento della procedura, all’interno di una delle strutture indicate dall’articolo 8 della legge n. 194 del 1978.
La Commissione suggerisce, infine, di ottemperare all’art. 15 della legge 194, in cui si prevede la possibilità di ricorrere all’uso di tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza.
Le delibere dell’Aifa. Nel novembre 2007 la Exelgyn, la ditta produttrice la Ru486, ha inoltrato richiesta di commercializzazione in Italia, mentre il 26 febbraio 2008 la Commissione tecnico-scientifica (Cts) dell’Aifa ha espresso il suo parere favorevole. In tale contesto, nel febbraio 2009, al fine di formulare le risposte ad alcuni atti parlamentari di sindacato ispettivo, il ministero ha richiesto ed acquisito direttamente dalla ditta produttrice Exelgyn i dati concernenti gli effetti segnalati in seguito alla somministrazione della Ru486. In particolare, erano state riscontrate delle criticità nella documentazione della procedura di mutuo riconoscimento, con particolare riguardo ai decessi segnalati a seguito della somministrazione della Ru486 (e al confronto della mortalità tra il metodo chimico e quello chirurgico). La Exelgyn ha quindi presentato un dossier, aggiornando e dettagliando le conoscenze soprattutto sugli eventi avversi segnalati, compresi quelli mortali, per un totale di 29. Concluso il passaggio al Comitato prezzi dell’Aifa, il 16 giugno 2009 la Commissione tecnico-scientifica ha confermato il proprio parere favorevole all’immissione in commercio della pillola e successivamente si sono avute due delibere del Consiglio d’amministrazione dell’Aifa. Nella prima, n. 14 del 30 luglio 2009, si è deliberato l’approvazione per l’autorizzazione all’immissione in commercio del mifepristone (Mifegyne). Tale delibera delinea “i vincoli del percorso di utilizzo di esso e del monitoraggio dei relativi rischi ed esiti”: nel dettaglio, “l’utilizzo è subordinato al rigoroso rispetto della legge n. 194 del 1978 a garanzia e a tutela della salute della donna; in particolare deve essere garantito il ricovero in una delle strutture sanitarie individuate dall’art. 8 della legge n. 194 del 1978 dal momento della sua assunzione fino alla verifica dell’espulsione del prodotto del concepimento. Tutto il percorso abortivo deve avvenire sotto la sorveglianza di un medico del servizio ostetrico ginecologico cui è demandata la corretta informazione sull’utilizzo del medicinale, sui farmaci da associare, sulle metodiche alternative e sui possibili rischi connessi, nonché l’attento monitoraggio onde ridurre al minimo le reazioni avverse segnalate, quali emorragie, infezioni ed eventi fatali.
La compatibilità con la legge 194. Uno dei profili cruciali del dibattito ha riguardato la verifica di compatibilità e di coerenza con i principi e i parametri di sicurezza posti dalla legge n. 194 del 1978. In particolare, nell’ambito della direttiva comunitaria che regola le procedure di mutuo riconoscimento per i farmaci, la 2001/83/CE, si prevede un’apposita clausola di salvaguardia all’articolo 4, paragrafo 4, secondo cui la normativa comunitaria non osta all’applicazione delle legislazioni nazionali recante limiti o divieti alla vendita, alla fornitura o all’uso di medicinali a fini contraccettivi o abortivi per i medicinali utilizzati a fini contraccettivi o abortivi. In questo quadro, il ministro del Welfare, nel corso della sua audizione, ha tenuto a precisare che nel caso della Ru486 le questioni tecniche, cioè le modalità di somministrazione, la sorveglianza su eventi avversi ed effetti collaterali, i dati epidemiologici e il follow up, sono strettamente intrecciate alla questione politica fondamentale, cioè il rispetto della legge 194; per tale disciplina normativa, l’aborto legalmente praticato dovrebbe avere sempre natura “terapeutica”, nei confronti della salute materna minacciata, anche in base alla sentenza n. 27 del 1975 della Corte costituzionale. Quanto alle prassi applicative, il ministro ha osservato come il metodo chimico, in tutti i Paesi in cui è stato introdotto, presenti uno scarto tra l’uso stabilito nei protocolli e l’uso reale, la prassi medica concreta, in quanto procedura lunga, soggetta a più verifiche, e affidata in gran parte alla paziente. Le garanzie di ospedalizzazione, la sorveglianza degli eventi avversi dopo l’assunzione, il consenso informato: questi i principali punti fermi che vanno salvaguardati.