Italia
Prato e il blitz contro i cinesi
di Damiano Fedeli
Quando un esercito di poliziotti, carabinieri, finanzieri, vigili urbani, ispettori di Inps e Asl si sono addentrati nei capannoni di via Rossini, lunedì della settimana scorsa, la scena è stata quella vista tante volte. Cinesi che scappavano in pigiama, lacrime, grida, giacigli di fortuna dentro i capannoni, a un passo dalle macchine da cucire, per questi schiavi dell’età contemporanea. E per la prima volta gli applausi degli ultimi residenti pratesi della zona alle forze dell’ordine, segno di un clima portato a livello di saturazione.
Non è stato un blitz come i tanti che si susseguono, a caccia di lavoratori clandestini, quello del 18 gennaio. I numeri innanzitutto lo rendono diverso, con più di cento uomini impegnati nell’operazione, 28 laboratori sequestrati 550 macchinari, 65 persone di nazionalità cinese clandestine scoperte, sette arrestate per non aver obbedito a precedenti provvedimenti di espulsione. Le modalità e l’imponenza del blitz, poi, con l’elicottero che continuava a volteggiare sui tetti della Chinatown pratese, hanno segnato in qualche modo una stretta nella strategia della città contro lo sfruttamento della manodopera illegale.
Un giro di vite contro cui ha fatto sentire la propria voce il console cinese Gu Honglin che ha parlato di «metodi nazisti». E che i due onorevoli del Pd pratesi Antonello Giacomelli e Andrea Lulli hanno criticato dicendo che così «non si combatte l’illegalità, ma si crea una pericolosa tensione sociale, colpendo solo gli ultimi».
Arrivati negli anni ’90 a Prato con i primi avamposti, i cinesi hanno trovato qui «un terreno fertile che non ha pari in Europa», spiega il sociologo Fabio Bracci, che a lungo ha studiato il fenomeno e le imprese. Che cosa fanno i cinesi pratesi, quale tipo di aziende abbiano, lo spiega bene Silvia Pieraccini, nell’intervista qui sotto. Sul perché Prato sia stata particolarmente favorevole, Bracci sottolinea. «È stato un mix di condizioni, legato alla storia stessa del distretto. Ovvio che non ha senso dire che anche qui quarant’anni fa c’erano lavoratori, italiani, che si trovavano nelle stesse condizioni dei cinesi clandestini di oggi. Diciamo però che c’è una storia, una serie di meccanismi economici e sociali penso alla produzione a basso costo, l’alta intensità del lavoro e il basso capitale, la produzione familiare che hanno favorito il loro insediamento». Sul fatto stesso della definizione di «distretto parallelo», non c’è accordo. «Personalmente è una descrizione che non condivido», prosegue Bracci. «Ci sono stati reciproci contatti e reciproca utilità, anche se questi ora vengono cancellati, additando la comunità cinese come comodo capro espiatorio, specie per la grande difficoltà a comunicare. Ma la verità è che il ritiro delle imprese locali dal distretto, o il rifugio nell’immobiliare, non sono certo fenomeni di questi anni».
Finché le cose andavano bene per i pratesi, nessuno badava ai cinesi. Ma quando la crisi, e in particolare l’attuale, globale, ha evidenziato che mentre le imprese italiane chiudevano e mandavano gente a casa, c’è chi fra i cinesi ha fatto fortuna e gira col Porsche Cayenne, si è provocato il corto circuito. Che ha anche fatto dimenticare che il pratese lavora al telaio e il cinese alla macchina da cucire, magari in un capannone preso in affitto da italiani. E ancora ulteriore motivo di urto le stoffe cucite dai cinesi a Prato non provengono dai telai italiani della porta accanto ma direttamente, e a basso costo, dalla Cina.
Temi su cui si è giocata la campagna elettorale della scorsa estate e che hanno contribuito alla clamorosa affermazione del centrodestra in una delle storiche roccheforti della sinistra, con la vittoria del sindaco Roberto Cenni, non a caso imprenditore del settore moda. Sindaco che adesso cerca un punto d’incontro fra il distretto cinese e quello italiano, tentando di far passare una strategia: le imprese cinesi regolari potrebbero acquistare le stoffe dai pratesi, invece che in Cina, producendo a prezzi più alti degli attuali, da mercatino, ma con una qualità migliore. Si fanno nomi di catene come Zara o H&M che potrebbero essere interessati a questo tipo di prodotto.
Sarà la strada da percorrere? Per ora, anche dal punto di vista d’immagine, prevale la strategia del «fiato sul collo». Affidata all’assessore alla sicurezza Aldo Milone, ribattezzato (ma lui lo respinge) «sceriffo». Assessore che, curiosamente, faceva parte, fino a dicembre 2008, quando si dimise, della precedente giunta di centrosinistra. «Anche allora aumentai i controlli, nel 2008, del 70% rispetto ai precedenti anni», sottolinea. «Nel 2009 sono stati ancora di più, siamo arrivati a 210, con 5mila macchine sequestrate. La strategia continuerà, è l’unico modo per far emergere il lavoro nero».vLa strategia dell’assessore alla sicurezza è chiara: «Se uno non li fa lavorare con le persone tenute in quelle condizioni, piano piano le ditte irregolari cinesi vanno via. L’integrazione economica fra le nostre aziende e quelle cinesi deve partire da una base di legalità. La collaborazione che abbiamo qui a Prato di tutte le forze, da quelle di pubblica sicurezza alla Asl è un modello che altre realtà devono prendere a esempio. Il console protesta? E come collabora? Non ne ha identificati uno dei clandestini. Con altre nazioni i rimpatri sono possibili. Con i cinesi, no». Ecco così, anche in mancanza di un Centro di identificazione ed espulsione, i cinesi fermati la settimana scorsa sono già in circolazione. Pronti a tornare a un’altra macchina da cucire. E a dormirci accanto.
Due anni fa spiegò chi sono e cosa fanno i cinesi a Prato. Silvia Pieraccini, giornalista del Sole 24 Ore, vive e lavora nella città laniera e con «L’assedio cinese», pubblicazione dedicata a quello che lei definisce il «distretto parallelo del Pronto moda», ha svelato. «Nel mio libro dice Pieraccini ho raccontato come è composta la filiera cinese a Prato. Per prima cosa ho voluto chiarire tanti luoghi comuni, la maggior parte sbagliati, sulla loro presenza all’interno del distretto».
Ancora oggi si pensa che i cinesi siano venuti in città per togliere il lavoro ai pratesi. È così?
«Assolutamente no. I cinesi non si sono inseriti nel segmento tipico dell’industria pratese almeno fino a oggi, perché la situazione sta ora cambiando non hanno mai fatto tessuti ma si limitavano a cucire vestiti realizzati con stoffe provenienti dalla Cina. Si è fatto confusione scambiando il settore tessile, tipico pratese, con quello dell’abbigliamento, dove si sono inseriti i cinesi».
Nel libro si parla del distretto cinese come di una piramide.
«In testa a questa struttura ci sono circa 600 aziende Pronto moda, committenti che stanno sul mercato, che acquistano i tessuti in patria, disegnano i modelli dei vestiti e tagliano le stoffe. Sotto questo vertice ci sono i laboratori, circa 2100, dove si cuciono i vestiti, le cerniere, i bottoni, si stampa, si realizza insomma il prodotto da mettere sul mercato. È in queste aziende che si annidano i clandestini, purtroppo sfruttati».
Il lavoro in nero e lo sfruttamento dei lavoratori sono chiave del successo di questo distretto?
«Certamente. A Prato ci sono migliaia di operai cinesi che lavorano 16 ore al giorno, che vivono nei capannoni guadagnando pochissimi euro. Guardando i bilanci delle aziende cinesi di capitale attive nell’abbigliamento si vede che il costo della manodopera è di 40 punti inferiore rispetto a una italiana».
Un altro «escamotage» per ridurre i costi di produzione è quello dell’evasione fiscale. Come avviene?
«Si stima che la vita media di una azienda cinese sia di 18 mesi, chiudono e aprono continuamente. Questo ricambio non permette a chi controlla, Guardia di finanza e Agenzia delle entrate, di poter agire nella riscossione di tributi e sanzioni. E questo avviene nonostante che al posto della vecchia azienda ce ne sia un’altra che ha gli stessi macchinari della precedente, le stesse attrezzature e lo stesso capannone».
Perché i cinesi hanno scelto Prato?
«Due sono stati i motivi: la presenza di un distretto già esistente e indubbiamente la crisi, che i cinesi hanno sfruttato e non provocato. La crisi ha permesso la forte espansione cinese perché ha liberato braccia, attrezzature e capannoni. Nel territorio pratese la moda si fa da sempre e la scelta dei cinesi è caduta in un segmento libero dove occorre tanta manodopera e pochi mezzi, solo macchine da cucire. E poi realizzando un capo a Prato, anche se i tessuti sono stranieri, si può apporre la dicitura Made in Italy, e un abito italiano ha ancora tanto appeal in ogni mercato del mondo».
Come vede il futuro del distretto parallelo?
«A mio parere stiamo assistendo a uno scenario pericoloso: il contagio dell’illegalità cinese nel distretto tradizionale. I cinesi stanno entrando prepotentemente nel distretto pratese. Oggi gli orientali acquistano anche rifinizioni e tessiture, soprattutto maglierie, aziende solitamente pratesi. Alla Camera di commercio sono iscritte 300 aziende cinesi di questo tipo. Sappiamo di imprese pratesi che stanno facendo commesse sottocosto e a nero per conto dei cinesi. In questo modo si aumenta il giro di denaro illegale, con il rischio di infiltrazioni di criminalità economica e finanziaria. La presenza di soldi non può passare inosservata agli occhi delle organizzazioni malavitose che su questo vivono».