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Mons. Warduni: «Vogliamo restare in Iraq anche a costo della vita»

di Daniele Rocchi

«In questo tempo di Avvento vi invito a pregare per tutte le situazioni di violenza, di intolleranza, di sofferenza che ci sono nel mondo, affinché la venuta di Gesù porti consolazione, riconciliazione e pace. Penso alle tante situazioni difficili, come i continui attentati che si verificano in Iraq contro cristiani e musulmani, agli scontri in Egitto in cui vi sono stati morti e feriti, alle vittime di trafficanti e di criminali, come il dramma degli ostaggi eritrei e di altre nazionalità, nel deserto del Sinai. Il rispetto dei diritti di tutti è il presupposto per la civile convivenza». L’ennesimo appello di Benedetto XVI contro la violenza e per la pace, lanciato nel corso dell’Angelus del 5 dicembre (BENEDETTO XVI, ANGELUS: UN INVITO A PREGARE PER IRAQ, EGITTO, ERITREA), chiude un’altra settimana densa di eventi tragici per il Medio Oriente e per l’Iraq in particolare, dove un giovane cristiano è stato freddato a Mosul, una coppia di anziani uccisa a Baghdad. Morti che stanno spingendo, secondo alcune stime, circa 500 famiglie alla fuga verso il Nord. Ne abbiamo parlato con il vicario patriarcale caldeo di Baghdad, mons. Shlemon Warduni.

Ancora morti cristiani in Iraq…

«Purtroppo sì. Altri due fedeli sono stati uccisi a Baghdad, anche se, a detta del loro parroco, questa volta il movente non sarebbe riconducibile alla religione ma ad un tentativo di furto. I due, un uomo ed una donna, siro-ortodossi, avevano da poco venduto casa, salvo poi rientrarvi per ritirare le loro ultime cose, quando sono stati uccisi. Il dramma dei cristiani iracheni vive anche di questi episodi di delinquenza comune che non risparmia nessuno e che provoca una fuga continua».

Favorita anche dall’offerta del governo di 400 dollari a coloro che intendono partire…

«Non sono a conoscenza di questa misura che certamente non favorisce la permanenza dei cristiani. I problemi non si risolvono offrendo soldi, ma indubbiamente c’è movimento da Baghdad e Mosul verso il Nord, il Kurdistan. Ringraziamo il governo del Kurdistan per il sostegno che offre ai rifugiati e profughi cristiani, ma questa non può essere la soluzione dei nostri problemi. La soluzione porta il nome di pace, di sicurezza, di giustizia e di lavoro. Raggruppare i cristiani in un solo luogo non è possibile, può essere una soluzione temporanea».

Il governo, recentemente, ha promosso un convegno sulla tolleranza e disposto una Commissione per tutelare la minoranza cristiana. Che ne pensa?

«La scorsa settimana abbiamo partecipato ad Erbil a questo incontro, promosso dal ministero iracheno dei Diritti umani su “Coesistenza e tolleranza sociale”, dove erano presenti molti esponenti religiosi musulmani. Ho esposto, con toni fermi, i problemi della minoranza cristiana, la sua mancanza di sicurezza e di considerazione da parte delle autorità. Ho ribadito per l’ennesima volta che noi cristiani vogliamo restare nel nostro Paese, nelle nostre case, nel nostro posto di lavoro, per contribuire alla ricostruzione dell’Iraq, anche a costo di morire. Ci sono stati momenti tesi, la nostra delegazione si è ritirata per protesta dopo la notizia dell’uccisione a Mosul di un giovane cristiano. Siamo rientrati solo dopo aver ricevuto assicurazioni da parte dei ministri della Cultura e dei Diritti umani di un impegno nel rispetto e della difesa dei nostri fedeli. Noi non vogliamo privilegi ma solo il rispetto dei nostri diritti. In questa direzione la nuova commissione parlamentare con una task-force della polizia per la protezione delle minoranze cristiane potrebbe essere un passo in avanti».

Cos’altro si potrebbe fare per migliorare la situazione dei cristiani?

«Il discepolo di Cristo deve essere un araldo. Se mostriamo tenacia e risolutezza nel restare nella nostra terra, forti nella fede, scoraggeremo ogni attacco. E poi incoraggiare il dialogo: se veramente i musulmani credono nell’unico Dio, e se veramente ritengono Gesù un grande profeta, non dovrebbero considerare i cristiani infedeli. Molte voci islamiche si sono levate in questa direzione, molti sono stati coloro che hanno messo in evidenza i tratti comuni delle due fedi, ma non bisogna fermare il dialogo e la reciproca conoscenza. Stiamo pensando poi ad altre iniziative…».

Quali?

«Il 14 e 15 dicembre saremo a Strasburgo per parlare al Parlamento europeo e spiegare la nostra situazione reale. La delegazione sarà composta, oltre da me, dagli arcivescovi siro-cattolici di Baghdad e Mosul, mons. Matti Shaba Matoka e mons. Georges Casmoussa. Faremo sentire la nostra voce all’Unione europea e racconteremo la nostra paura e la nostra intenzione di restare nel Paese. Prima, il 9 dicembre, come Consiglio dei capi religiosi cristiani in Iraq, abbiamo indetto una giornata di digiuno per commemorare i martiri della cattedrale siro-ortodossa di Baghdad e chiesto ai nostri fedeli di astenersi da feste e mondanità per le prossime feste natalizie. Tra tante brutte notizie, fortunatamente anche di belle, come la riapertura, il 5 dicembre, dopo oltre un anno e otto mesi di lavori, della chiesa “Madonna del Sacro Cuore” di Baghdad, alla presenza di oltre 250 persone, tra cui il patriarca Mar Emmanuel III Delly e diverse Istituzioni, insieme a tanti fedeli. Un bel segno di speranza».